lunedì 22 ottobre 2012

IV) Alda Merini

Milano dicembre 2005

Alda Merini sta all'umanità come un vulcano in eruzione su un'ìsola di folli. Dolce come il burro, inattesa come la calura in febbraio ed il gelo nel colmo agosto, spigolosa e vellutata, lei è una poetessa shocking: la sua poesìa ha parvenze ed allure di quotidiana naturalezza, ma però sostanza di un'arcana ànima gelosa, forse intesa all'assoluto.

Siamo a Natale. Protetta da una foschìa boreale, se ne sta rincantucciata in casa sua - tana dal còsmico disòrdine - sulla proda dell'immoto Naviglio. Milano e lei s'àmano e si sospèttano ab origine. E' un legame passionato, per lo più tàcito, come quando ci si riposa dopo tratti di baci, graffi e rabbuffi.

Montaigne scriveva nei "Saggi" che nulla è così fermamente creduto come ciò che meno si sa. Cara Alda, tu credi in quell'omino bianco e rosso che si fa chiamare Babbo Natale?
  "Visto che ti garba citare, ti risponderò con un altra citazione, d'un altro francese di gran conto: Diderot. Si corre lo stesso rischio a credere poco che a credere meno. Sì, credo in Babbo Natale, nei babbi e nei babbuini. Nel primo perché è un giocherello, un nonno bonario che premia e, al caso, sa castigare i fidenti bambini. Nei secondi perché i bambini ci scòrgono Dio, di cui hanno bisogno e desiderio, quand'anche inespresso. Nei terzi, infine, perché sono migliori dei secondi sotto ogni profilo, escluso quello estètico: ma anche qui, volendo, si potrebbe ragionare sopra".

Ma sai dirmi chi sìano i bambini? creature reali? enfants terribles? fantàsime del nostro bisogno d'innocenza?
 "Non prènderla per retorica, i bambini sono la cosa viva più bella del mondo. Io ne ho partoriti quattro, e trìbolo più lancinante non poteva dàrmelo l'assistente sociale che me li sottrasse per spedirmi in manicomio. Fùlgido esempio dell'agire tìpico dei sedicenti sani di mente".

In sèguito l'hai recuperato il rapporto con i figli?
  "L'ho recuperato a poco a poco. L'ùltima figlia, in affido ad una facoltosa famiglia romana, avendo saputo che anche lei aveva una mamma, se n'è venuta a piedi dalla Capitale a cercarmi. I bambini non cèrcano una stanza piena di balocchi: cèrcano  il cuore della mamma, anche se ferito, rinsecchito, fàttosi inospitale per taluno accidente. Il corpo dei genitori, ch'è il loro proprio, guai a chi glielo tocca, o ruba. Perciò sono di sòlito così furiosamente ostili ad ogni donna che s'inserisca nell'àmbito del padre, ad ogni uomo che lambisca quello della madre, che loro non cèssano di ritenere affatto vergine. Oggi io ho settantacinque anni; i figli miei vanno dai trentasei ai cinquanta: mio grato, immeritato sotegno".

Sotto Natale la tua poesìa è incline a modulare un verso ai bambini?
 "La tua richiesta alquanto indelicata mi coglie di sorpresa. Non un sonetto. Facciamo magari una barzellettina, va bene?... Papa Giovanni Paolo II invita Babbo Natale nella stanze del Vaticano. "Per piacere, mio buon Babbo, ùsami l'amabilità di regalare tonnellate e tonnellate di giocàttoli ai bambini pòveri dell'Africa nera". "Ma Santo Padre - obietta colui - i bambini vorrèbbero giocare, ma sono mesi, anni che non mangiano quanto sarebbe loro necessario". E il Pontefice: "No mangiare, no giocare".

Che cosa invece vorresti chièdere per te a Babbo Natale?
"Che più ancora? Senza tema d'esagerare, dal mondo ho avuto in dono tutto: figliuoli, manicomi, elettroshòck, brutali isolamenti,  amanti d'ogni risma, amori imparadisati e amorazzi menadìstici, còiti gaudiosamente condotti in porto e còiti provvidenzialmente interrupti in sul più bello, cavalcate furibonde e trotti barzotti, èstasi e dannazioni, amici squisiti come te e nemici dal cervello disabitato... Hoc era in votis".

E come trascorrerai la giornata del 25 dicembre?
 "Uggiosamente con la figliolanza e la nipotanza...".
 E invece a quale desiderio mirerebbe il tuo cuore rampante?
 "Ad un uomo giovane, da amare, tutto per me. Avvolto ancora nel cellophane, tanto fosse inviolato".
Madame, lo scarto delle vostre età - la di lui e la tua - non ti turberebbe? "Ma che dici mai? Manco un po'. Se dopo averlo onninamente scartato e ignudato, io sgamando che il baldissimo arriccia il naso a mo' di dubbianza, lo rassicurerei pur peccando d'immodestia nel proferire la seguente verità: "O bel giòvine! non ti scandalizzar e ardisci senza tema. Ve' che madonna, che a fronte ti sta divota, fà all'amore come la poetessa medèsima sa far di sonetto".

... E dopo tale Natale erotico-gaudente l'ultima notte dell'anno occidente? "Sazia e ormai infragilita, dormirò il sonno dell'ingiusta non appena udrò il tocco: ricca a sorrisi, carezze e baciozzi dei nipotini".


III) Alda Merini

Mi sono incontrato con Alda Merini a Milano, nel settembre del 2001, in occasione dell'uscita per i tipi di Frassinelli del suo nuovo libro intitolato "Corpo d'amore - un incontro con Gesù".
*
La tua tempra di poetessa è pervasa da un forte spìrito religioso?
 "Ti confesso in verità che s'àgitano in me numerosi appetiti fìsici. Come dire? mi piace vìvere".

La tua visione di Dio?
 "Nei lunghi soggiorni patiti in manicomio ho dovuto cambiare il modo d'esìstere: di conseguenza in manicomio è cambiata anche la visione di Dio: non era più il Dio della salvezza. La stessa casa di cura si configurava ai miei occhi come il sacrificio di Isacco".

Hai letto la Bibbia?
 "Con scrupolosa e affascinata attenzione. Eppure ci sono scritte cose che non ho mai compreso". Quali ad esempio? "Tutte, ad essere sfacciatamente schietta".

La fede ti sorregge?
 "In parte: in taluni luoghi del cuore, e del tempo. In parte mi aiuta la serena accettazione del Caso, se non di Dio". E non ti ribelli? "L'uomo vuol sempre mèttere becco nelle cose che lo riguàrdano. Un errore capitale".

La fede dona felicità?
 "Parola smisurata e infantile, la felicità. Stamane mi sono alzata tardi. E più tardi ancora se non avessi ricevuto la tua vìsita. Sono libera. Non timbro cartellini, non sono soggetta ad orari e ad incombenze. Vado per via e fantàstico graziosamente ove non abbia gravi motivi di soffrire. La fede aleggia d'intorno, con compita discrezione, e qua e là sovviene all'uopo. Questa si potrebbe definire una sorta di felicità. Seppoi felicità e fede stringano un rapporto più stretto, mi compiaccio d'ignorarlo".

Invochi Dio?
"Lo tratto alla pari, come un uomo. Ci lìtigo. I nostri battibecchi sono fantàstici, tanto lui vuole sempre avere ragione.  La gente non capisce, o rifiuta, il rapporto d'amicizia con l'Essere supremo. E di norma manca d'equilibrio: o adorazione passiva, o sciocca blasfemìa, o pàvido disinteresse".

Ma chi è Dio per te?
"Un pazzo. Un pazzo d'amore. Perciò, al pari di tutti i pazzi, non è compreso. E noi l'abbiamo emarginato con la crocefissione".

 L'insegnamento del Cristo che più senti aderire alla tua sensibilità?
 "La carità. L'uomo non intende stringere un patto d'alleanza col proprio simile, donde la miseria degli ànimi, la corruzione e la fame nel mondo. Dio ci ha insegnato la spoliazione dei beni: se applicàssimo tale insegnamento la nostra società sarebbe, se non paradigmàtica, meno piagata e più appagata. L'uomo crede che tutto gli sia dovuto. Sbaglia. Ha già tutto. Oggi è surreale il diàlogo che ha luogo tra il mendicante che si rivolge al possidente supplicando: "Signore, ho fame!" e costui che risponde: "Buon segno!"

Hai peccato spesse volte?
 "Assai in giovinezza, con rigenerante furia".

E ora? "Alla mia veneranda età pecco ancora di più. Con imbarazzante e dolorosa irresolutezza... Ma dimmi te: se non ci fossero i peccatori, le Chiese che cosa farèbbero?"

Il segreto del vivere?
 "A mio umile parere, il buon senso. Che vale più dell'intelligenza. A patto, beninteso, d'aver più intelligenza che buon senso".

Philip Glass

Ci siamo incontrati con Philip Glass nel marzo del 1984, in occasione della prima rappresentazione all'Opera di Roma dell'epìlogo del quarto atto e delle scene del primo, secondo e terzo atto di "The Civil Wars" ("Le guerre civili"), il ciclòpico lavoro teatrale allestito dal regista Bob Wilson. Lavoro che nella sua completezza contempla cinque atti e 15 scene per una durata totale di nove ore all'incirca. Mi disse Glass al proposito: "Ho impiegato per le musiche di questo vasto lavoro la stessa tècnica applicata alla mia òpera precedente, "Einstein on the beach". Nulla a che fare con mùsiche concertìstiche: qui il linguaggio sonoro si adegua alle esigenze prioritarie del racconto e del ritmo della pièce teatrale. Il regista Bob Wilson ed io abbiamo iniziato a realizzare le scene, quindi abbiamo definito i testi e la recitazione ed in base ai tempi ho scritto le mùsiche acconce. Mùsica molto tonale, fondata sulla principio della ripetizione e variazione, con una strumentazione orchestrale di tipo affatto tradizionale".
*
Philip Glass è il caposcuola del "Minimalismo" in musica (sebbene nei più recenti lustri la sua scrittura si sia avvicinata ad un modello più tradizionale e "sinfònico"). Un'icona americana: come George Gershwin o John Cage, per intèndersi. Un riferimento obbligato per la mùsica colta degli ùltimi trent'anni. Nel momento in cui più le avanguardie europee s'intorcinàvano in intellettualismi strutturalìstici rarefatti e rebussìstici, sulla soglia dell'atomizzazione del suono, ovvero del silenzio, ecco che dall'altra sponda dell'Oceano, come un gran sole che sorga dall'orizzonte, Philip Glass irrompe sulla scena mondiale con lesue sonorità sèmplici, terse, solari, sempre uguali a se stesse, ripetitive come una cantilena, senza fine, e adagiate all'uopo anche nell'ormai lisa ed aborrita tonalità di "do maggiore".... Oggi le platee la apprèzzano, l'applàudono e si riconcìliano così con il linguaggio dei suoni contemporaneo, mentre gran parte della crìtica, in specie europea, si scandalizzò, sbraitò e condannò alla pena capitale, per perpetrate ovvietà & banalità, il novello mùsico a stelle e strisce.

Il quale è nato a Baltimora nel 1937 da genitori ebrei emigrati dall'Ucraina. Da giovane ha studiato all'Università di Chicago la matemàtica e la filosofìa, e per guadagnare ha fatto il tassista e il gestore di una compagnia di traslochi.
Ma come sei giunto alla musica? "I primi approcci risàlgono all'età di otto anni, grazie ad un flauto. Ho cominciato a scribacchiare note sul pentagramma a quindici. Ho studiato composizione alla Juilliard School di New York e dal 1962 al 1965 mi sono trasferito a Parigi dove ho proseguito gli studi con Nadia Boulanger".
Quale è stato l'insegnamento prìncipe ricevuto da quella grande docente? "Direi piuttosto che iniziammo un duro lavoro di ripasso di tutti i concetti basilari del far mùsica, fino a giùngere alle misteriose relazioni che intercòrrono fra un sistema di segni linguìstici e lo stile".
Quale stile? "Assumemmo d'esempio quelli di Palestrina, Bach, Mozart e Stravinskij".
Sono compositori che in sèguito hanno in qualche modo influito sul tuo stile? "Assolutamente no".

Quali sono stati i maestri che hanno contribuito alle tue fondamenta linguistiche? "I più importanti il sitarista indiano Ravi Shankar, conosciuto a Parigi, e John Cage".
Che cosa ti ha prospettato il modello sonoro del cèlebre artista indiano? "In primis, la struttura della mùsica incentrata sul paràmetro rìtmico, e non necessariamente sull'armonìa e sulla melodìa com'è accaduto di norma nelle tradizioni occidentali".

Attribuisci un peculiare significato all'attività del comporre, oppure è mestiere, un semplice lavorare? "Per me comporre è fare, ed èssere musicista è dedizione totale a questo fare, in cui riverso me stesso e la mia esistenza interiore".

I tuoi rapporti con le "terribili" Avanguardie europee? "Non le conosco" (NB. la risposta è chiaramente e provocatoriamente polemica e, data da un musicista, anche vituperosetta).

In che modo definiresti il tuo linguaggio musicale? "Sèmplice, impostato su sèmplici ritmi e su sèmplici rapporti d'armonìa".

L'ispirazione esiste? "Forse nel sonno, a livello subconscio".

Come giudichi due grandi compositori americani quali Eliot Carter e John Cage? "A dirti la verità, del primo non mi sono mai interessato. Del secondo che dire ancora? Non so di un solo musicista che non ne abbia subito il fàscino".
A tuo avviso quale è stato il più geniale insegnamento di Cage? "La mùsica si compie nel pùbblico che l'ascolta. Vale a dire, la penna del compositore e la fantasìa ricettiva del pùbblico assùmono eguale rilievo ed incidenza nella realtà dell'òpera d'arte".
L'òpera d'arte quasi una coproduzione? "Proprio così. La mùsica non è astrazione, che invece è la matemàtica, per farti un esempio".

Ti piace la mùsica di Leonard Bernstein? "No".
Perché? "La domanda pònila a lui".

Conosci qualche compositore italiano contemporaneo? "Maderna, Petrassi, Nono e Berio. I più giòvani no".
Questi citati si legano alla tua musica? "Non direi".
Può èssere che qualcosa divida e distingua i compositori americani da quelli europei? "Gli americani hanno assai poco il senso della Storia".
E' un bene? "Senz'alcun dubbio. La tradizione talvolta intralcia e tiene ancorati. Chi ne è libero è più leggero ed àgile, e dinanzi gli si dischiùdono più lìberi e vasti orizzonti. Va da sé, non si sceglie dove nàscere".

Per ventura, t'è giunta voce delle fèrvide discussioni che s'intrècciano qui, nel vecchìssimo continente, circa l'eventuale "morte della mùsica d'arte"? "Se debbo èssere sincero, no. Strano, oggi la mùsica offre di sé un panorama molto vario e vivace, ed è così influente nel cuore d'ognuno e in specie dei giòvani! Il pùbblico mi pare ben disposto. Non comprendo perché la mùsica dovrebbe essere sul punto di tirar le cuoia. Ma chi lo dice di voi?"
Eppure se una vasta platea è posta ad ascoltare, mettiamo, due ore di mùsica di uno Stockhausen o di un Webern mica si entusiasma. "S'è per questo nemmeno io".
E di chi s'entusiasma allora il pùbblico? "Conosco negli Stati Uniti compositori che forse voi in Europa ignorate. Faccio soltanto tre nomi di giòvani sotto i trentacinque anni: John Adam, Gland Branco e David Burnos. Loro piacciono, eccome!"

Qual è il tuo giudizio su un rilevante compositore americano del Novecento storico come Charles Ives? "E' stato un grande. E un tempo la sua mùsica è stata importante per me".

Ami il jazz? "L'amo, ma non ho talento per l'improvvisazione, come richiesto da questo stile".

E la mùsica rock? "L'ascolto con piacere, come ascolto tutta la mùsica, d'ogni gènere. Qualche frammento càpita sovente che s'incunei nei miei lavori".







domenica 21 ottobre 2012

Giorgio Vigolo

Nato nel 1894, il poeta romano Giorgio Vigolo la vita la cedette agli Dei dopo lunga pezza, a Roma, nel 1983. C'incontrammo nel giugno del 1979, a casa sua nel quartiere Prati: un appartamentino al sèttimo piano di un edificio umbertino, così in alto da èssere più vicini alle nùvole che alle trafficate e silenti vie sottostanti. Vi aveva vissuto fino a poco tempo prima con il fratello, ora era rimasta  un'affezionata e anziana governante. Discorremmo a lungo, un pomeriggio, nello studio-biblioteca dove le file di libri ordinate e fitte, e le vecchie rilegature in pelle, preziose e un po' consunte che rivestìvano i volumi come una parete, dàvano un calore antico alla stanza. Quasi da ogni libro spuntava un mazzetto dei strisce di carta, segnali che rammentàvano le notazioni, le predilezioni, le commozioni della lettura. Sul tàvolo, l'una sull'altra, le cartelle che raccoglièvano i versi non ancora o non più pubblicati: qualche poesìa scritta di getto, altre che riportàvano sulle parole battute a màcchina i ripensamenti a matita. Mi lesse qualcosa, ma tornando alla prima versione. "Più procedo negli anni - considerò fermando gli occhi su una parola - più torno stupito alle cose che composi ragazzo, e ne sono felice".
Che Vigolo sia stato tra i crìtici e musicòlogi più acuti di questo Paese sarebbe sufficiente a dimostrarlo "Mille e una sera all'opera e al concerto", il libro che ha riunito le recensioni da lui compilate per quotidiani e periòdici dal 1945 al 1966. Una "milizia" appassionata e intelligente mai caduta nella routine dell'affrettato rendiconto cronachìstico o nell'esasperato tecnicismo degli addetti ai lavori, ma sempre valorizzata dall'apporto di una vastìssima cultura stòrico-letteraria che gli ha permesso di rilevare i sottili e moltèplici legami fra le diverse manifestazioni dell'espressione artìstica.

Mi puoi dire del rapporto fra il fare del poeta e quello del crìtico musicale?
"La crìtica può ambire talvolta alla poesìa. Credo d'avere scritto alcune tra le mie pàgine più soddisfacenti proprio in veste di recensore musicale: nei momenti migliori, quando avverti un'indefinibile consanguineità celeste con la storia dei suoni che ti giunge nello spìrito"...
 La pagina che Vigolo tiene aperta davanti a sé riguarda l' "Arte della fuga" di Bach, òpera suprema del raziocinio che in lui sùscita un'emozione straordinaria : "Quella pienezza vivente di commozione risulta tanto più meravigliosa in una costruzione d'assoluta mùsica pura come l' "Arte della fuga" che sembra ricongiùngersi con le forme misteriose di remoti mondi della natura, con il mondo dei cristalli e degli astri. Il fatto è che da codesta purezza e astralità non si sprigiona, come spesso accade in sìmili casi, il gelo matemàtico o il compiacimento estètico dell'art pour l'art, ma l'ìntimo fuoco di un amore che trabocca dalla vita stessa dell'artista".

I tuoi primi rapporti con la musica?
 "Sono nati con le emozioni dell'infanzia. Ascoltavo la bellìssima voce di contralto di mia madre, che se non fosse stata la nipote del Sìndaco di Roma, Pietro Venturi, avrebbe avuto le carte in règola per salire con successo sui palcoscènici. Anche mio padre cantava con discreta voce di tenore. Probabilmente io sono nato da un loro duetto. E, appena possìbile, ho messo le mani sul pianoforte: con la destra strimpellavo i motivetti della "Vèdova allegra", con la sinistra imbastivo un rozzo accompagnamento "albertino". Abitavamo a Lungotèvere Mellini, numero civico 34. Dalle finestre scorgevo distintamente il Piazzale del Pincio dove, nel giorno dello Statuto, s'accendeva una miràbile giràndola di fuochi d'artificio. Ma la festa più bella per me era quando su quel Piazzale si faceva mùsica, ed io, al segnale delle prime note, spiccavo una corsa da casa per raggiungere la celebre Banda Comunale di Roma diretta da Alessandro Vessella, lì dal 1905 al 1921 ad allietare le domèniche della paciosa borghesìa capitolina".

Ho più volte letto che quel direttore di banda, d'orìgini casertane, da Thomas Mann chiamato con ostinazione "Vessello" divenne quasi una figura leggendaria. Che ricordi e giudizi ne serbi?
 "Possedeva un màgico flùido pedagògico: trascrivendo per gli strumenti a fiato le parti degli archi imprimeva alla partitura la plasticità del bassorilievo rispetto al quadro dipinto. Spetta a lui il mèrito di aver diffuso per primo la mùsica di Wagner nella nostra città. Sento ancora l'èstasi a cui fui sollevato dall'Ingresso degli Dei nel Walhalla, avvenuto all'aria aperta, in mezzo ai bambini che giocàvano, ai cani che scodinzolàvano fra la folla, ai soldati che tenèvano sottobraccio la morosa - ed erano forse un po' indifferenti alla mùsica ed impazienti - in mezzo ai vecchi che, stupiti dalle astruserìe metafìsiche dell'Anello nibelùngico, invocàvano patriotticamente il sacro e sòlido nome di Verdi".

Fu nel 1909 che Vigolo ascoltò il primo concerto all'Augustèo, allora chiamato "Anfiteatro Comunale - Anfiteatro Corea". Loggione, centesimi 25. "Ascoltai nientemeno che la "Nona" di Beethoven diretta da Willem Joseph Mengelberg, il leggendario maestro nederlandese a capo dell'Orchestra del Concertgebouw di Amsterdam dal 1885 al 1941. Avevo 15 anni e non capii la eccezionale complessità  della struttura beethoveniana; tuttavìa da quel momento la mùsica venne ad occupare un largo spazio nella vita del mio sentimento".

Una passione così forte non ha tentato di prevalere in te sull'attività di poeta?
 "Non ci è  concesso di scègliere ciò che si è. Io sono soprattutto un poeta. A dòdici anni già scrivevo versi con un senso dell'endecasìllabo e della tradizione rìtmica assai sviluppato. Al contrario, non sono mai stato capace di "inventare" una melodìa e di disegnarla sul pentagramma. Consìdero la mùsica come una delizia, dolcìssima delizia, cui m'affido ma a cui non so rispòndere con mia originalità. Essa ha costituito per me un fondamentale elemento d'integrazione culturale".

Non hai mai provato il desiderio di studiare il linguaggio dei suoni in modo sistemàtico?
"Sapevo lèggere molto bene a prima vista. Sicché, con la malleverìa di mio padre, presi a frequentare la Biblioteca dell'Accademia di Santa Cecilia. Ebbi in prèstito i clàssici della letteratura pianìstica e li divorai avidamente: Bach, Mozart, Schumann, Chopin... E lessi avidamente la Passione secondo Matteo di Bach; imparai a memoria i Quartetti per archi di Beethoven nella trascrizione per tastiera: un fatto abbastanza insòlito negli anni in cui il gusto musicale italiano ruotava intorno a Puccini e Mascagni. Ho provato orgoglio nella successiva attività di crìtico musicale quando, di fronte a colleghi annoiati dall'ascolto dei Quartetti, io indicavo loro la necessità dei legami che innàlzano a suprema unità di poesìa le quattro voci dialoganti".

La "scoperta" di Vigolo critico si dovette alla lungimiranza di Giacomo Debenedetti, che nel '45 insieme ad Alberto Moravia, Leonida Repaci e Guido Piovene, fondò il giornale L'Epoca. "Un pomeriggio, incontrai Piovene che mi disse: "Ehi! Giorgio, si fa in giro il tuo nome come crìtico musicale del nuovo quotidiano". La cosa mi stupì enormemente perché ero a conoscenza dei numerosi e quotati musicòlogi in fila e in lotta - senza esclusione di colpi -  per ottenere quell'incàrico. Ricordo che De Paoli mi inviò un biglietto maligno: "Pasticciere, fa' il tuo mestiere!". Dopo L'Epoca venne Risorgimento liberale e, appena tre giorni dopo la sua chiusura, Pannunzio e Gorresio mi telefonàrono per invitarmi a Il Mondo, il prestigioso settimanale cui rimasi legato per oltre vent'anni. Devo dirti che fin dai primi pezzi riscossi un successo che mi fece un poco di rabbia. La notorietà avrei preferito averla con la poesìa; invece i versi apparsi su Il Giornale d'Italia scivolàvano via inosservati".

Caro Vigolo, in tanti anni di crìtica militante ti sarai posto la domanda circa il significato sociale e la funzione divulgativa di questa tua attività.
 " Se devo dirti la verità, non ho mai attribuito molta importanza alla cosa. Ho sempre pensato che della crìtica, tutto sommato, se ne potesse fare a meno senza grave danno per il pùbblico. Basta la mùsica". Non crediamo alle sue parole. La penna di Vigolo, oltre a ripercòrrere i capolavori della mùsica d'arte, ha scolpito con tratti esemplari e fascino definitivo figure di sommi intèrpreti del Novecento: da Furtwaengler a Karajan, da Stravinskij a De Sabata e, più in su nel tempo, le mìtiche apparizioni romane del tedesco Arthur Nikisch e di Gustav Mahler...

Al giorno d'oggi è particolarmente rilevante il fenomeno del "divismo", che quasi pare aver sostituito  i valori intrìnseci della mùsica. Sei d'accordo?
 "Certo, è come se nel cuore dell'ascoltatore l'intèrprete avesse soppiantato il compositore. Come se al concerto o all'òpera ci si recasse per ammirare sul podio un Carlos Kleiber o per godersi i virtuosismi canori di un Pavarotti in scena, anziché per ascoltare una Sinfonìa di Brahms o un melodramma di Bellini".
Ma escludi che questo "divismo" esasperato possa per altro verso avviare o facilitare l'approccio dei giòvani al mondo della mùsica d'arte?
 "I miràcoli sono miràcoli. Però ritengo che il destino musicale di un individuo abbia radici diverse e più profonde. Non c'è una via di Damasco, sulla quale ti aspetta il celebrato direttore d'orchestra o il tenore di grido per predisporre la tua vocazione musicale".

Perché il compositore contemporaneo è in crisi?
 "Tutte le fontanelle se so' seccate; povero amore mio more de sete. Dalla Scuola dodecafònica a Stockhausen un tecnicismo ipertrofizzato è subentrato alla fantasìa ed alla vena melòdica. Oggi non si è più capaci di cantare: manca l'abbandono della mùsica al sentimento e del sentimento alla mùsica. Crisi del gusto e inaridimento. E i crìtici da parte loro hanno puntato le armi al cuore. Pochi sono rimasti i compositori che non tèmono di tradurre in pàlpito di suono le loro più segrete vibrazioni. Alcuni se ne stanno in disparte e confìdano in tempi migliori, altri si sono imposti con la forza del talento e dell'urgenza espressiva: penso a Menotti, a Nino Rota, il maggior musicista italiano in attività...".
Vigolo s'interrompe e mi guarda negli occhi per scòrgervi consenso o dissenso. E' arduo ribàttere ad un illustre crìtico: addirittura impossìbile se costui è anche un vero poeta... Gli dico: "Caro Vigolo, se i crìtici la verità la cercano, i poeti come te la crèano".

domenica 14 ottobre 2012

II) Alda Merini

Ai poeti la gente si rivolge rade volte, avendo altro cui badare. Deve pensare alla vita, che a detta d'ognuno è una brutta gatta da pelare. D'altra banda, essi, i poeti, paiono ciondolare dalle nuvole, per nulla empìrici, poco affidàbili perché troppo dissìmili da noi, gente normale. Noi siamo la settimana, loro, i poeti, la domènica; noi la fàbbrica diurna, essi, i poeti, gli opifìci notturni. E pàrlano strano, sovente arduo e, ciò ch'è peggio, le parole che mòdulano tràggono in inganno: sèmbrano voler dire una cosa mentre la significanza è tutt'altra. Diceva Jean Cocteau che le masse pòssono amare un poeta soltanto per un malinteso.

Diceva Ortega y Gasset che il poeta incomincia là dove finisce l'uomo. Ma dove comincia la poetessa Alda Merini? Nelle sue esplosioni di risate? o nel suo sùbito rintanarsi in imperscrutàbili regioni di silenzio? o nel famigliarizzare col primo volto che incontra? o nell'amoreggiare con le ideepiù irrazionali e con i ricordi più feroci?  Mi dice: "Come poetessa sono una conservatrice. Come donna anziana amo le cose che sono state lambite dai miei amori, dalle mie sventure, dalle mie felicità".

Dimora Alda Merini lungo il Naviglio, in Milano, da cinquant'anni, avèndone ella settantadue d'età. Ma ne dimostra assai meno: anzi, non ne dimostra alcuno: non è vecchia, manco giòvane - altra stramberìa di codesta "razza" d'èsseri poetici. L'esperienza che ha contraddistinto e tuttavìa contraddistingue la sua vulcànica ed irònica esistenza, si sa, è stato il manicomio: gabbia di folli più coerenti, coraggiosi e fantasiosi, di coloro che vanno scorazzando di fuori: oltraggiosamente liberi, e d'una normalità inquietante. "Ho litigato coi miei figli, che m'accùsano di trascurarli, di non protèggerli. Io trascurarli? Ma ti pare?". Il suo rapporto con la progenie è in vero curioso. Quelli l'àmano d'una formidàbile tenerezza, e d'una doverosa ammirazione; ella li contraccambia - o l'antìcipa - con modi divoranti; e però una sòrta di pudicizia fatta di battibecchi velenosi avviluppa e percorre l'intermittente rapporto.

Intrattenersi con la delicatìssima poetessa è agèvole soltanto in apparenza: di là da l'urbanità del dire, da la famigliarità del comportamento. Ella parla per ellissi, per sguardi strafottenti e romàntici in uno, e le parole si muòvono peggio di camaleonti infuriati. "Io non leggo più. Mi dolgono gli occhi". Che non legga più non sia a crèdersi. "Ma no, davvero! dò una scorsa al quotidiano, a riviste femminili poco impegnative, agli articoletti di gossip". Ed èccola sprofondarsi ne le lodi a l'inglese Diana, correndo il quinto anniversario de l'immatura scomparsa, bellezza inglese angelicata, bionda bellezza perfettuosa, che solo un'alma perfidiosa, un cervello inordinato ardirebbe di tradire. E come potè quel prence? Non sono forse i prìncipi superiori non soltanto a duchi, marchesi, conti e baronetti, ma anche, e sovr'a tutto, a la gente comune più che sovente traditora? Eppoi, passi la bellezza, ch'è a la fin fine una sciarada estètica, ma con Diana è stata tradita e vituperata la maternità. "Anch'io sono stata donna tradita: dalla famiglia, dagli amanti, dal matrimonio. Ho molto amato, e la ricompensa è stata quella manicomiale. Eppure hanno malignato sul mio conto, qui in zona Naviglio. Io che sono madre, io, Madonna emarginata".

Viene di pensare: è proprio vero, è necessario esser càndidi siccome colombe, astuti siccome serpenti, intanto che Alda Merini non ci sa fare col quotidiano. "La donna al momento del parto tocca la morte con le mani. E la religione è il supremo nutrimento del poeta". Ella si professa religiosa: è la sua una forma di lirismo, un tèndere a la purità di cieli pensati ed agognati, là dove solo il barbaglio de la fede in un ente supremo regge la vertigo. Però i dogmi non andrebbero, forse, considerati con gran cautela? "Macché! amico mio carìssimo: la Chiesa romana li ha formulati perché offrano quiete alla mente dell'uomo". Bisogna star da la parte degli uomini, sostiene. "Voi siete bietoloni, creduloni, vi tenete per potenti, partite, conquistate, teorizzate, assolvete e condannate. Giusto. Ma sono le donne che comprendono, e basta una loro piroetta ad infinocchiarvi e lasciarvi come baccalà, che neppure ve n'accorgete. Siete individui da difèndere, poveretti. Io sono dalla vostra parte". Si dura fatica a reputare le donne delle faine che ne combìnano di cotte e di crude: e di lesse a l'uopo. E come si fa quando s'ammira l'interminata innocenza della Merini? La quale giuoca con l'interlocutore in controluce, di traverso, e dal fricandò della psicologìa più ingarbugliata e grottesca di questo mondo, tutto d'un tratto estrae un'immàgine verginale che profuma d'origini: "La poesìa è prender per mano una maternità còsmica".

L'hanno amata, l'Alda, intellettuali "importanti": dallo scrittore Giorgio Manganelli cui ispirò "Hilarotragoedia", al poeta Salvatore Quasimodo, a Pasolini, che la chiamava "la ragazzaccia milanese" e la citava fra i poeti memoràbili del Novecento. E da tanti altri fu amata, così come lei amò alla follìa, non ricambiata, Lucio Dalla, insieme al quale ricevette il "Premio Montale" . In quella occasione il suo dentista la sollecitò: "Ora che hai raggranellato un po' di soldi grazie al Premio, rimèttiti i denti (perduti a causa degli elettroshok in manicomio, ndr). E lei: "Fossi matta! Vuoi mèttere la soddisfazione di ridere a Lucio con la bocca sguarnita? Eppoi, già peso sull'ottantina. Se mi dotassi di dentatura e potessi così masticare quanto cibo mi garbasse, arriverei a superare il modello rubensiano. E Lucio che direbbe?
E Alda amò anche, nel corso di lenti e sofferti dodici anni (dai 27 ai 39), i circa duemila pazienti del "Paolo Pini", il nosocomio psichiàtrico di Milano ove dimorò a lungo. "Facevo la cameriera, portavo il caffé a chi faceva l'amore". Si innamorò di un malato che incontrava quotidianamente in ospedale, ed anche lui provò un èmpito per lei. Volevano amarsi ma non gli erano concessi spazi. Alda bussò alla porta del direttore dell'ospedale e supplicò un permesso d'uscita per sé e per quell'uomo stento e dolce. Era intelligente, il direttore, e glielo accordò. Un pomeriggio d'inverno i due èsseri, mano nella mano, aprìrono il cancello del nosocomio e vagàrono per le vie brumose di Milano, senza sapere dove dirìgersi, stupefatti dell'accadimento, incrèduli a se stessi. Trovàrono una pensione. Salìrono in càmera. L'uno di fronte all'altra, si guardàrono un àttimo. D'improvviso si prèsero per mano e  scèsero le scale. E tornàrono a "casa", felici.
Un amore è tale quando uno è felice della felicità dell'altro.
Un amore, non importa quale, diventa grande anche se fratello alla castità.
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(5 - X - 2002)

I) Alda Merini

E' ben curioso che una notte così alata e fùlgida come quella di San Lorenzo sia racchiusa in una stagione sì crudele e sparagnina come quella estiva. La benèfica piova di stelle finte - cìnema d'una breve notte - entro giorni d'arsura, d'immedicàbili solitùdini, di spazi urbani galleggianti su deserti petrosi. Contrasto arcano ed acerbo, questo, che neppure gli scienziati, dèboli della loro elusiva scienza, hanno potuto spiegare, né, ch'è peggio, giustificare; né le leggende dell'Antico, ricolme di fantasìe, hanno saputo districare e sistemare in mito: di minaccia o promessa che fosse.
Parrèbbero, a prima vista, le stelle di San Lorenzo discèndere a rincuorare, forse delle volte a compùngere, quanti hanno lo sguardo disseccato nella pervicace malsanìa della realtà: parrèbbero pòrgere una ràpida incantagione, però senza soverchi simulacri, o promesse, di svolte radicali, d'epifanìe meravigliose, che sono inganni che a la fine si pàgano a sovrapprezzo; parèbbero, le stelle di San Lorenzo, pòrgere una giostra notturna assai lene, atta a temperare le trepidanze ed a sfumarle in un paesaggio di costumate melancolìe.

E' la notte, si sa, delle rivìncite ardite. Vale a dire dei desideri dalla formulazione fulminea. Una sorta di gara contro il tempo, ché pensieri ed auguri altrimenti si nullificherèbbero in fole. Ma perché il desiderio s'attui abbisògnano al desiderante taluni requisiti imprescindìbili: il cuore gonfio (meglio ancora se debordante, senz'èssere tumultuante), la ferrea certezza - o sia la coscienza - delle proprie necessità ed urgenze, ed insieme la loro modestia in tèrmini di praticità. Ed occorre più che mai uno stato d'ànimo sospeso e vagolante, di là d'ogni sistema raziocinante, disposto a sùbite capriole d'umore, a divenire ùmile rotella di quei minuti marchingegni dell'inclinazione psicològica, che come Prìncipi Azzurri trasfòrmano un mesto sospiro in un sorriso, una volgare disperàggine in un gentile viàtico, una làcrima in un approdo momentaneo di pace.

Nella notte di San Lorenzo sarebbe tuttavìa errore madornalìssimo attèndersi anche la concreta realizzazione del desiderio. E del resto, forse che un desiderio sarebbe tale se mai s'inverasse? Gli uomini desìderano che alcunché di grande o pìccolo gli manchi. Se mai ce l'avèssero, non lo desidererèbbero. Se ce l'avèssero, l'oggetto del desiderio, ne sarèbbero delusi, o gli sfuggirebbe, o li noierebbe: fosse pure la piena della felicità, i fasti dell'opulenza, il turbinìo della passione, l'ascesi professionale, l'utòpica conquista d'una presunta verità. Sublimi condizioni, empirei privilegi, forniti d'apparenze e non di sostanza, i quali gòdono dell'illusoria vita d'una farfalla. Desiderare: è la maestosa ed universa legge della sopravvivenza, che ab aeterno impone all'èssere umano una meta irraggiungìbile; legge cui non si sottrae manco la notte fatata di San Lorenzo, cadenzata su la giga delle stelle cui perennemente saremo grati. Né potrebbe sottrarsi Alda Merini, la poetessa dagli affetti dischiusi e negati in uno. La sua estate non è una vacanza, ma un'agonìa di solitùdini.

Incontro la Merini per la notte di San Lorenzo. Scarne parole, le sue a me, di ritrosìa e quasi pudicizia, perché "il desiderio è più che istinto: è una scelta di valori, un dire sì o no. Una contraddizione, stante che noi si è fatti d'una pasta che tutto contiene, ed il desiderio è non di rado il contrario di quanto ci giova, se non di ciò che siamo. Io desìdero che l'umanità non giunga così lontano come sembra, tanto da sfracellarsi. Desìdero anzi che accorci i telescopi - meglio chiuderli tout-court - e scruti in sé stessa, là dove Dio sta capitolando...  Mi domandi se mi capitasse stanotte di scorgere una stella cadente? Proverei a chiamarla col nome dell'uomo cui un tempo ormai rimoto ho donata me stessa, e cui troppo presto io sono parsa vile patrimonio, fuggèvole cosa. Ma non accadrà. Io mi corico di buon'ora e mi sveglio all'ora salutante del gallo: quando nei cieli le stelle non sono più desideri ma sbiaditi rammàrichi".
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(10 - VIII - 2000)

Uto Ughi

Presenza costante e confortante nel corso della mia trentennale esperienza di musicòlogo e crìtico  musicale, Uto Ughi è insieme a Salvatore Accardo il violinista di maggior rilievo artistico del secondo Novecento italiano. Interprete impetuoso e soave, calligràfico e rigoroso, "segretario" di Mozart e Paganini, amante dei violinisti-compositori tra Otto e Novecento, cui suole da sempre dedicare i fuoriprogramma più capricciosi e maliziosi a definitivo trionfo dei recitals.
Riporto di sèguito una parziale e manchevolìssima sìntesi delle numerose conversazioni che ho intrattenuto con il musicista lombardo lungo gli anni...
Le Sue origini musicali?
 "Mio padre era un avvocato segnato un travolgente amore per il violino. Invitava a casa gli amici, tra cui Ariodenta Coggi, primo violino di Toscanini nell'Orchestra della Scala, e insieme facèvano mùsica camerìstica. Nel fàscino di quelle serate forse nacque la mia passione. Coggi m'insegnò per i primi cinque anni. A dieci fui mandato a Parigi per studiare con il rumeno George Enescu: l'esperienza più gratificante della mia giovinezza. Purtroppo nel 1955, dopo appena due anni, il maestro si spense e io non potei usufruire appieno dei suoi preziosi insegnamenti. Enescu non era un pedagogo stricto sensu ma il musicista che comunica mùsica. La sua impronta su di me è rimasta tenace. Ricordo che una volta volli andare all'Opéra di Parigi per ascoltare "Der Freischuetz" di Weber e chiesi consiglio a Enescu. Mi rispose: "Ascolta, se ti piace andrai a teatro". Sedette al pianoforte e lungo l'intero pomeriggio suonò per me il capolavoro weberiano, dalla prima battuta all'ùltima. Il suo era un insegnamento inteso come missione".
I compositori che più hanno influito sulla Sua formazione musicale?
 "Bach e Paganini. Il primo per quanto concerne la tecnica in funzione dell'espressione musicale. Nelle sue sei Sonate per violino risiede implicitamente tutta la mùsica intesa a questo strumento. Il secondo per la modernità della tecnica linguistica".
Ama suonare anche in formazioni cameristiche?
 "Non c'è dubbio. Beethoven, Schubert e altri grandi romàntici hanno espresso il meglio di sé nelle pàgine cameristiche. Per apprezzare a fondo gli ùltimi Quartetti beethoveniani non basta una vita di studio. E il violinista che li ha familiari - mi confermò Sandor Vegh - suonerà meglio anche il Concerto in re maggiore di Beethoven.
Quali sono gli incontri fondamentali della Sua vita? 

"Uno è stato con lo scrittore argentino Jorge Luis Borges che conobbi durante un soggiorno a Buenos Aires nel 1980. E' stato tra i personaggi più poliedrici e affascinanti da me avvicinati. Mi ha impressionato la sua lucidità mentale e la freschezza delle immàgini. Borges era cieco, però parlava e scriveva per immàgini come se avesse stagliati dinanzi a sé i personaggi, le loro situazioni, la loro època. La sua descrizione si realizza in modo miràbile sotto forma pittòrica".
Le piacciono "Ficciones?

 "Sono tra le cose più belle. Ma amo anche le sue poesie: è un lirico straordinario".
E gli incontri nel mondo della musica?

 "Fui assai impressionato da Andrés Segovia quando lo conobbi nel 1981 a Venezia in occasione del Premio assegnàtogli . Mi ha meravigliato la sua schiettezza e sincerità. Il sommo chitarrista non temeva certo di formulare giudizi inequivocàbili; bando alla diplomazìa, non  aveva peli sulla lingua. Non era d'accordo, per esempio, su quanto dicevo prima di Borges. A suo giudizio mancavano allo scrittore argentino la poliedricità e la complessità intellettuali. Ma non ci credo. Borges, come dìcono gli inglesi, era molto "twist": procedeva per scorciatoie dialèttiche... Altro memorando musicista fu lo statunitense Yehudi Menuhin, figura di singolare sottigliezza razionale, fornito di una forte capacità d'astrazione. Gli interessi che coltivava si estendèvano alle filosofìe orientali: praticò lo yoga e soggiornò per lunghi periodi in India. Viaggiò per tutto il mondo e incontrò genti di regioni remote. La differenza tra Segovia e Menuhin consisteva nel fatto che il chitarrista era concreto, immediato, e s'avvertiva in lui il buon senso tipico dello spagnolo, mentre il secondo era assai più logico e raziocinante: quasi un personaggio borgesiano".
Lei ha conosciuto un altro cèlebre violinista: il polacco Henryk Szeryng...

 "Un uomo di rara intelligenza. Si divertiva a recitare un po' la commedia, e vantava rare doti diplomatiche, sostenuto da una non comune furbizia. Anche lui molto concreto, capiva le situazioni a colpo d'occhio, ciò che era opportuno dire e ciò che era meglio tacere. Straordinario show-man, che talvolta esagerava".
Tuttavìa mi pare che quando suonava il violino, Szeryng trasformasse questo lato clownesco in autenticità d'interpretazione e veridicità d'espressione...

 "E' vero, soprattutto in Bach. A mio giudizio è stato l'interprete bachiano per eccellenza del suo tempo".
Quali sono stati, tra i violinisti, i più profondi intèrpreti di Bach, di Mozart e del Concerto in re maggiore di Beethoven?

 "Di Bach, oltre a Szeryng, e in taluni momenti, Menuhin. Ma la mia citazione dei nomi è limitata e condizionata dal fatto che numerosi fra i grandi intèrpreti non hanno registrato le mùsiche bachiane. Fra gli assenti due violinisti ucraini del càlibro di David Oistrach e Isaac Stern, mentre il belga Arthur Grumieux ne ha incise soltanto talune. Il quale ha nondimeno offerto la più bella versione dei Concerti mozartiani. Quanto al capolavoro beethoveniano direi Oistrach dal vivo e, in registrazione discogràfica, il boemo Joseph Suk (nipote dell'omonimo e magistrale violinista vissuto tra il 1874 e il 1935), che però in Italia ha suonato di rado pur essendo stato valentissimo intèrprete del repertorio clàssico: da Bach a Beethoven, da Mozart a Schubert".
Un altro favoloso violinista del secondo Novecento è stato il russo Leonid Kogan. Un tempo lo si paragonava a David Oistrach per potenza d'espressione, tecnica trascendentale, brillantezza e purezza del suono. E' d'accordo?
"Debbo confessare che Kogan ha saputo darmi profondissime emozioni. Negli ultimi anni di vita è stato male in salute: tante volte lo vedevo in palcoscenico con un volto spettrale. L'avevo conosciuto in occasione del Concorso "Paganini", quando eravamo entrambi in giurìa: per una decina di giorni discorremmo di numerosi argomenti . Era persona squisita. Mi confidava che aveva dato troppi concerti, uno di sèguito all'altro, in Europa, Amèrica e Asia: centinaia di serate. E suonò fino allo stremo, senza badare a risparmiarsi. Si macerò sul violino. Avvertivo in alcune esecuzioni la spossatezza accumulata, ma rimaneva un musicista eccezionale".
Come intende Lei il virtuosismo? Che rapporto vi è tra virtuosismo, tecnica e interpretazione?
 "Il virtuosismo dev'èssere in funzione dell'espressione musicale. Il vero virtuosismo risiede nel rèndere la frase nella veste più sèmplice, al colmo della bellezza di suono, di dosaggio dinàmico e agògico. Virtuosismo non è eseguire una scala in modo celèrrimo, cosa che con un po' d'addestramento e allenamento, diceva Wilhelm Furtwaengler, è agèvole ottenere. La meccànica e la tècnica non sono altro che il punto di partenza".
Il vero virtuosismo è pertanto l'apparire e l'affermarsi della semplicità, quando tutte le difficoltà d'òrdine tècnico ed espressivo si acquietano in un fenòmeno. In tal senso il virtuosismo è al servizio dell'interpretazione. Ma quale è il Suo concetto d'interpretazione?
 "Non esiste un solo concetto. In un'accezione generale, interpretare è penetrare lo spìrito del testo, tra le righe, di là dalla mera notazione; scandagliare la trama dell'òpera, conòscerne il compositore, il suo stile, l'època che lo accoglie, il mondo culturale che lo sollècita e condiziona".
Interpretare è dunque storicizzare. Ma l'anàlisi stòrica in quale rapporto si pone con la soggettività, l'humanitas, il sentimento dell'interprete? L'interpretazione quanto è fedeltà e adesione allo spìrito del testo e quanto invece è ri-creazione?
"Stabilirlo è problematico. Segovia affermava che interpretare è sapienza, conoscenza e saggezza in uno. Sapienza è sapere che cosa fare; conoscenza è come farla; saggezza è farla. Penso che, in ogni modo, l'ispirazione debba godere di un largo spazio".
Può l'ispirazione mutare di sera in sera? 
"Sicuro. Cambia con lo stato d'ànimo o, più semplicemente, con il grado di ricettività dell'orchestra o del pùbblico".
Il pubblico La condiziona?
 "Non me soltanto. Tutti gli intèrpreti sono antenne riceventi e trasmittenti . Un uditorio distratto, o disperso in una grande sala, può tògliere concentrazione anche all'esecutore, mentre due o tremila persone concentrate emànano onde positive e benèfiche sul musicista che le capta e le volge a vantaggio della propria espressione".
Quindi l'interpretazione riversata su disco risulta inferiore a quella dal vivo, in concerto?
 "Secondo me, la prova della verità interpretativa si coglie attraverso un'incisione effettuata dal vivo. Si prèndano ad esempio le incisioni delle Sinfonìe di Brahms e di Beethoven dirette da Furtwaengler durante un'esecuzione pùbblica. Si sente il pùbblico tossire, le poltrone scricchiolare e la tècnica d'incisione non così buona quanto lo sarebbe con i mezzi della tecnologìa moderna. Eppure ci si trova di fronte a lezioni interpretative insuperate per fantasìa, immaginazione e afflato musicale. E' questa elettricità che corre tra pùbblico e intèrprete".
Mi risulta che i rapporti tra Uto Ughi e la mùsica contemporanea sìano piuttosto delicati.
 "La mùsica contemporanea va conosciuta e studiata. E digerita, benché costi fatica. Non posso definirmi un supporter delle produzione dei giorni nostri . Probabilmente si tratta di una mia lacuna...".
E non reputa opportuno colmarla?
 "Certo. Con lo studio, con l'anàlisi e infine con l'accettazione. Però accettarla non signìfica necessariamente amarla. E' una questione d'inclinazione e gusto soggettivi. La mùsica, a mio avviso, è finita all'incirca alla metà del ventèsimo sècolo. Qui la Tradizione si è inabissata. E' stato un trauma violento, con tutte le conseguenze che stanno davanti ai nostri occhi".
La mùsica non è espressione abbastanza fedele del tempo in cui nasce?
 "D'accordo. E non possiamo respìngere il tempo che ci dà vita. Eppure può accadere di non trovarci bene in questo tempo".
E' il Suo caso? 
"Per certi versi sì. Noi oggi usufruiamo di una maggiore libertà che nel passato, di una più ampia informazione, di più fitti scambi umani e sociali. Per altro verso assistiamo a uno spaventoso appiattimento dei valori. La gente è resa uniforme dai modelli imposti dai massmedia. In poche ore sei portato da Milano a Los Angeles. Tutto è sìmile, o meglio, tutto tende all'indifferenzazione degli usi, dei costumi, dei linguaggi delle culture... Le sale da concerto sono uguali a Tokyo, Berlino, New York...".
Intende dire che il mondo si va chiudendo in una sorta di morsa curtense? "Sì , ed è fenomeno innaturale e inquietante".
Oltre la mùsica, che cosa vale per Lei?
 "La vita quotidiana, il contatto con la gente. Non è possìbile interpretare senza vìvere. La mùsica è un'altìssima forma di vita, d'interpretazione di se stessi e delle proprie conoscenze, filtrate attraverso la sensibilità. La musica forma il caràttere; è scuola e palestra formidàbile d'organizzazione e disciplina mentale".
Da che cosa è alimentata la Sua anima?
 "Forse dal desiderio del confronto continuo, dalla volontà del miglioramento, dal porre sempre tutto in discussione e non accettare mai un dato come definitivo. Mi sembra dicesse Voltaire che il dubbio ha da èssere la matrice di ogni nostra azione".
Uto Ughi visto da se stesso? 
"Un uomo che dopo aver trascorso la giornata nello studio del violino - dalle sei alle dieci ore quotidiane - non gli rimane che un lembo risicato di cervello, di elasticità e ricettività mentali per dedicarsi a ciò che ancora gli piace. Mettiamo, leggere un libro. In realtà dovrei limitare il numero dei concerti, come facevano Kleiber e Giulini. Altrimenti si corre il rischio di cadere nella stasi intellettuale e nella routine dell'interpretazione".
Che cosa più La esalta e la offende nella vita? 
"Ad offendermi è la malafede, il partito preso, la mancanza di coerenza. Mi esalta esattamente il contrario: il coraggio d'affrontare le situazioni seppur sgradèvoli a viso aperto. Oggi si è sovente vìttime del conformismo, della paura di sincerità, del compromesso. Temiamo gli errori che potremmo commèttere, il giudizio altrui e sospettiamo di èsserne scorticati vivi... Ma io resto dell'opinione che sbagliando s'impara".





Carlo Maria Giulini

Carlo Maria Giulini (Barletta, 1914 - Brescia, 2005) è stato giudicato uno tra i maggiori direttori d'orchestra del secondo Novecento. Abbiamo riassunto di sèguito, dopo numerose conversazioni negli anni, quelli che erano i suoi convincimenti intorno ai punti nodali della sua esistenza privata, morale  ed artistica.
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Un ideale di vita.  "Vorrei condurre una vita sèmplice, ma gli altri non sono d'accordo e còmplicano ogni cosa. L'ùnica meta dell'uomo dovrebbe èssere la felicità. E il màssimo della felicità dovrebbe consìstere nel fare il lavoro per il quale si è nati. Tutto è così fràgile, passeggero: se non ci fòssero le registrazioni discogràfiche che segno lascerei del mio impegno direttoriale?".
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Umiltà. "Sono come una valigia in trànsito. Tutti del resto siamo in trànsito. Se non ci fossi io, ci sarebbe un altro al mio posto".
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La mia famiglia.  "La mia vita non è stata di quelle fàcili. Un cammino, agli inizi, non agèvole. Ho dovuto lavorare strenuamente, sono stato al fronte, ho affrontato le difficoltà del periodo crìtico dell'Italia tra fascismo e nazismo. Però ho avuto le due maggiori chances che siano concedute all'uomo: la famiglia dalla quale sono nato e la famiglia che mi sono creato".
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La donna.  "La donna è competitiva con l'uomo, ma impara dall'uomo le cose peggiori. Forse sarò un sentimentale, ma ritengo che se cancellàssimo la figura della donna, che era un tempo il centro della casa e della vita, resteremmo òrfani di tutto: anche della speranza".
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Io e gli altri.  "Non temo il contatto con gli uòmini. Posso temerne la violenza fìsica, ma la mia speranza non è mai venuta meno giacché confido nel destino degli èsseri umani, vale a dire nel cammino che li dovrà condurre innanzi tutto al senso della recìproca tolleranza, e quindi alla bontà. Certo, non esiste bontà senza intelligenza, coraggio e altruismo. Ma queste cui tendiamo sono virtù che dovremo conquistare insieme".
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La paura del direttore.  "Ricordo che una volta, quand'ero ancora molto giòvane, un amico mèdico venne a trovarmi nel camerino di Santa Cecilia prima di un concerto. "Hai paura?" mi domandò. Gli dissi di no. Mi tastò il polso: risultò normalissimo. Però dopo il concerto dovetti rimanere tre mesi a riposo tanto mi ero esaurito. Ripeto sempre che bisogna aver paura di non aver paura, eppure c'è un momento in cui l'umiltà non è più consentita: quando sali sul podio per interpretare i capolavori della mùsica. Allora devi dirti: "Io ora sono Mozart (o Brahms, o Schumann...)". A concerto concluso, quei geni sono lassù, intangìbili, e tu torni ad essere Carlo Maria Giulini, ossia nessuno".
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La bacchetta ideale.  "Di Bruno Walter vorrei la gioia del far mùsica; di Wilhelm Furtwaengler l'intensità della linea insieme alla fantasìa e alla libertà eccezionali; di Otto Klemperer il forte senso dell'architettura e il rispetto della forma; di Victor De Sabata il colore e la dinàmica".
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L'òpera d'arte e l'intèrprete.  "L'incontro con l'opera d'arte somiglia ad un incontro amoroso tra due èsseri umani. Un avvicinamento progressivo, una conoscenza sempre più profonda, sino al possesso recìproco, e i due èsseri divèngono una sola cosa. Lo stesso accade con la mùsica quando l'intèrprete affronta un'òpera. Dapprima il momento della conoscenza di quanto è scritto in partitura. Segue lo stadio determinante, in cui l'òpera la si conosce interiormente e la comprensione è recìproca. Quindi l'ùltima e decisiva tappa: il possesso: l'òpera d'arte diviene tua. Sino a che si deve studiare e comprèndere il testo è necessario èsser ùmili e rispettosi. Ma nell'atto dell'esecuzione ed interpretazione occorre mèttere da parte le riserve: nel possesso tutto viene superato da ciò che svetta, ed è l'amore. Invero il rapporto con l'òpera d'arte non è che un atto d'amore".
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La mùsica contemporanea.  "Pur non avendo preclusioni per alcun genere, sono portato ad interpretare soltanto la mùsica che ho la possibilità di capire, quindi di amare, ma innanzi tutto di lèggere. Nella mùsica contemporanea si còntano linguaggi che non decifro, scritture che non conosco, suoni che non appartengono alla mùsica quale io la concepisco. Un rumore di pèntole in cucina può  avere una valenza affettiva se è mia moglie che sta cucinando, ma per un altro non signìfica un bel niente: una mera sensazione epidèrmica. Io credo nell'arte come comunicazione di quei significati di cui l'umanità abbisogna. Mi pare che la mùsica contemporanea, schiacciata forse dalla scienza e dalla tecnologìa, segni una pausa in tal senso".
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La mùsica e i giovani.  "Oggi tutte le informazioni ci giùngono dagli occhi e minàcciano d'èssere costrittive. La mùsica invece lascia lìbera la facoltà fantàstica e non ci rende schiavi di nessuno. I giòvani lo avvèrtono, anche se al propòsito possiamo ricavare impressioni di segno contrario. Quei giòvani che non crèdono alla libertà che può dar loro la mùsica ritengo che sìano una netta minoranza".
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Il gesto direttoriale.  "Diffìcile spiegare sul piano razionale che cosa sia il gesto per un direttore d'orchestra. Guarneri non concertava con una bacchetta ma con un pezzo di matita. De Sabata interpretava in forma mìmica, di danza. Furtwaengler, sotto il profilo della tècnica gestuale, sbagliava tutto perché accennava con le braccia e con il corpo cose assurde, eppure ciò che comunicava ai professori d'orchestra rimane insuperato. Il direttore deve possedere in sè il suono. Io vidi Danny Kay dirigere l'Orchestra Filarmònica di Israele in occasione di un concerto per l'UNICEF: cose pazze e divertentissime. Ma il suo gesto, tra smorfie e piroette, era assolutamente esatto. Ciò che conta non è il gesto, è il risultato.Quando insegnavo al Conservatorio di Milano ripetevo sempre ai miei allievi (ricordo Abbado e Berio tra gli altri): "Non voglio sapere che cosa fate. Se un vostro gesto non traduce ciò che pensate non so dirvi come corrèggerlo perché sono le vostre idee a non èssere chiare".

Karlheinz Stockhausen

L'estètica musicale tedesca ama distìnguere tra "Nurmusiker", il musicista puro, e "Ideenmusiker", il musicista intellettuale. Nella prima definizione si fa rientrare Vivaldi, Mozart, Mendelsshon,  Donizetti, etc..., nella seconda, quale supremo paradigma, Richard Wagner. Ma nel sècolo ventèsimo l'incarnazione dell'Ideenmusiker spetta di rigore a Karlheinz Stockhausen vissuto tra il 1928 ed il 2007: di certo tra le figure più rilevanti e problemàtiche nel panorama della mùsica moderna e contemporanea; tra i maggiori rivoluzionari della storia della mùsica; indiscusso protagonista e iconoclasta dell'Avanguardia, massime negli anni Sessanta e Settanta. Per antonomasia il nome di Stockhausen è l'emblema popolare e universale della mùsica più intorcinata, indecifràbile e matta; della mùsica più antitètica al gusto del largo pùbblico. Spetta non di meno al compositore tedesco il primato delle òpere più vaste e monumentali del teatro d'òpera, come "Licht": òpere superiori persino a quelle badiali di Wagner, del quale egli appare un imponente e stravolto epìgono. Anche lui ha mirato al "Gesamtkunstwerk", "l'òpera d'arte totale" che comprende mùsica, poesìa e danza, cui ha aggiunto azioni precise, gesti del compositore, etc... Ambiziosìssimo progetto teatrale permeato da uno spìrito metafìsico. Nella tetralogìa de "Der Ring des Nibelungen" Wagner si era per così dire "limitato" agli Dei delle antiche saghe nòrdiche, Stockhausen invece prende a soggetto di "Licht" il cosmo nel suo infinito spazio-temporale, ossia l'èssere "sub specie aeternitatis", onde non si può non avvertire una tensione ad abbracciare la realtà del mondo e trascènderla in una teorìa archètipa di sìmboli, nella quale teorìa dovrebbe risièdere il fondamento dell' "Urgrund der Natur", la "causa prima della natura". L'èsito di siffatto teatro è per un verso un flusso sonoro primordiale e magmàtico che s'espande ininterrotto in tutte le direzioni per intrìderle di sacrale ieracità, per altro verso è un altero equilibrio tra trascendenza ed irrealtà, tra misticismo e visionarietà, tra utopìa e sospetto di lusinga...

Incontro il maestro a Roma, una mattina d'aprile del 1981, per riassumere in un breve scritto la sua visione dell'arte musicale.
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Quale significato riveste per te èssere compositore?
 "Significa èssere  un uomo di mestiere, un artigiano che costantemente va alla ricerca dei nuovi aspetti di un linguaggio, di una tècnica linguìstica. Il processo di serializzazione, cui hanno contribuito numeròsi musicisti di là da Schoenberg, Berg e Webern, si è enormemente sviluppato negli anni Settanta. Io ho applicato alla serializzazione tutti i parametri della costruzione e dell'espressione musicali, non escluso il gesto mìmico che accompagna, illùmina ed ìntegra il suono".

Che cosa aspira ad esprimere la tua mùsica?

  "Non posso rispòndere correttamente in senso unìvoco poiché ogni òpera è un'entità autònoma ed assume un significato specìfico. In termini vaghi diciamo che la mia mùsica è volta ad assùmere e manifestare in vita di suono la relazione fra i ritmi che a noi è dato intuire tra le stelle, i pianeti, gli àtomi che vòrticano nell'universo. La mùsica è, e dev'èssere, un'esplosione di conoscenza del macrocosmo. Non soltanto io, bensì ogni compositore tende nella propria òpera ad un modello conoscitivo dell'universo, al cui centro è posto l'uomo".

In Europa, e in maniera particolare in Germania, numerosi giòvani compositori, definiti neoromàntici, pàiono interessati al ricùpero della "melodìa" e di una cifra più squisitamente lìrica. Quasi un rifiuto della mùsica radicale e d'avanguardia. Come giùdichi questo fenòmeno? 

 "Le creo anch'io le cosiddette "melodìe", vale a dire quelle forme archètipe che si fìssano nella memoria ed aiùtano l'ascoltatore a seguire lo sviluppo di una composizione anche nei suoi aspetti rìtmici e armònici. La melodìa non è di per sé un elemento reazionario: il vero problema è piuttosto operare una sìntesi tra le linee determinate dagli intervalli più complicati e desueti e da quelli più ovvi e tradizionali. Chi si lìmita ad impiegare le funzioni armòniche già lise e consunte denunzia carenze e vuoti di fantasìa. Così come al giorno d'oggi taluni musicisti sèmbrano aver risolto qualsivoglia problema compositivo previlegiando il paràmetro tìmbrico".

Non ritieni che la mùsica occidentale abbia sempre trascurato la funzione rìtmica, fatta forse eccezione degli ùltimi decenni, e che rispetto alle esperienze delle civiltà orientali e africane il ritmo europeo sia rimasto bloccato a livelli affatto primitivi se non rozzi? 

 "Certo. Ciò è accaduto perché il nostro sistema musicale fin dal Medio Evo si è poggiato sull'armonìa e ad essa ha condizionato tutti gli altri elementi strutturali. Ovvero, la semplicità della rìtmica occidentale altro non è stata che una conseguenza dello straordinario sviluppo dell'armonìa. Soltanto ora stiamo prendendo coscienza che le due funzioni rivèstono pari dignità".

Ha una  funzione specifica l'avanguardia? 

 "Penetrare nell'ignoto e rivelarlo razionalmente; dischiùdere il futuro e condurlo al presente. Soltanto la mùsica che sottopone a perenne dubbio il concetto stesso di mùsica ha diritto di definirsi d'avanguardia".

Ma credi che sia comunque possìbile fare arte senza fare avanguardia? 

 "Sarei sciocco se lo negassi. Tale è ad esempio la mùsica "funzionale": la mùsica intesa a servire ai bisogni quotidiani, che pertanto non ha l'òbbligo morale di seguire questa evoluzione permanente del linguaggio dei suoni e della conoscenza".
 In quale relazione si pòngono tècnica e contenuto? Ci còrrono differenze?
  "Nessuna. Il contenuto è nuovo se nuova è la tècnica di cui il linguaggio si serve per comunicare tale contenuto. Un'invenzione tècnica apre automaticamente nuove prospettive, e le nuove sensazioni che proviamo ci sprònano a penetrare nuovi "misteri": a volte si corre, altre si rallenta, ed altre ancora ci si ferma. In verità, nel nostro presente la mùsica sta attraversando un formidàbile perìodo di sviluppo linguìstico e di ricerca del nuovo: perìodo iniziato negli anni Cinquanta quando si è iniziato ad usare i nuovo strumenti elettrònici, i generatori di suoni, i mixer etc... Oggi siamo giunti appena ai primi traguardi".

E il pianoforte, il violino e la chitarra? E la stessa orchestra? Saranno ancora necessari od ùtili alla mùsica del futuro o verranno conservati nei musei? 

 "Gli strumenti che tutti conosciamo e amiamo verrà il giorno che serviranno soltanto a conservare e tramandare le òpere del passato. Vorremo sempre ascoltare le Sinfonìe di Beethoven come sempre vorremo ammirare le tele di Tiziano, e sempre le Sonate di Mozart come il Partenone d'Atene: quindi ci sarà sempre bisogno dell'orchestra, del pianoforte etc... Però dimmi se oggi qualcuno compone ancora musica, se non per boutade o capriccio, riservata a strumenti dell'Antico o medievali quali la fidula, la ribeca, l'olifante o la tromba marina".

Nella corsa sempre più frenètica della tecnologìa applicata alla mùsica, il musicista avrà ancora possibilità di distìnguersi dallo scienziato? 
 "Premetto che oggi multi musicisti che s'interèssano al materiale sonoro in laboratorio sono ingegneri e non musicisti. L'artista è colui che utilizza i principi della combinazione del nuovo materiale per creare nel presente forme e mondi del futuro. Onde richiamare l'ànima degli altri nella voràgine della conoscenza".

Perché la mùsica è "progredita", per usare un tèrmine a te caro, più nel Novecento che nel lento trascòrrere delle civiltà barocche, clàssiche e romàntiche?
  "Il motivo è palese: il progresso musicale odierno è connesso allo sviluppo della tecnologìa, alla fìsica atòmica, alle nuove scienze della genètica, della biologìa, della matemàtica statìstica, della linguìstica... Inoltre oggi la mùsica occidentale non è più chiusa in una turris eburnea. L'Europa musicale ha conosciuto l'Oriente, l'Africa, i vari stili dell'Amèrica latina e centrale. La terra è diventata un villaggio. La nostra època ha chiuso il primo capìtolo della storia della mùsica. Come l'uomo è andato sulla luna, così l'arte dei suoni ha scoperto nuovi spazi, la cui ricchezza è entusiasmante".

Pensi che l'intelligenza alloghi anche in altri mondi? 
 "Non ne dùbito affatto". E dunque può èsserci  un'altra mùsica oltre quella terrestre? "Ogni pianeta abitato dallo spìrito possiede una propria mùsica e propri strumenti, similmente ai vari stili in uso sulla terra. Il nostro stesso spìrito, quando non è racchiuso e prigioniero nel corpo, è capace di percepire la mùsica del cosmo e degli elementi che vòrticano negli spazi".

Già il pensiero greco ed in particolare quello pitagòrico parlavano di mùsica delle sfere. Una mùsica che tuttavìa era da intèndere più come armonìa ed equilibrio dei moti dei corpi celesti che come oggetto d'esperienza umana, intuitiva od intellettuale. Tu mi pare che vada oltre su questa strada, affascinante sì, ma poco o punto verificàbile. 
 "Ricòrdati però che i greci sono stati i maggiori razionalisti della storia ed i primi scienziati della civiltà occidentale. D'altronde io ho individuato mùsiche incredìbili, appartenenti al microcosmo: utilizzando speciali micròfoni, come il mèdico usa lo stetoscopio, ho colto suoni che nessuno prima aveva immaginato o ipotizzato. Sono i suoni, le vibrazioni più fini che esìstano all'interno delle cèllule e delle molècole. Ecco che dalla scoperta di nuovi materiali deriva l'esigenza di una organizzazione della forma. Materia e forma hanno del resto progredito sempre di pari passo". 


Perché i comuni mortali preferìscono di gran lunga Bach a Boulez, Haydn a Maderna, Brahms a Stockhausen...? 

 "Perché ciò rientra nell'òrdine naturale delle cose. Quanti ancor oggi non hanno mai ascoltato Haendel o Haydn pur essendo il gusto di massa della civiltà occidentale fermo al linguaggio sette-ottocentesco? Il cammino per avvicinare la sensibilità comune alla mùsica di un Boulez e di uno Stockhhausen è lungo e lento: esigerà secoli di maturazione. Ma qui il discorso si fa più ampio. Io dico che la stragrande maggioranza dell'umanità ha, ed è giusto che abbia, una costituzione spirituale e una funzione di tipo conservatore. Sarebbe un danno irreparàbile se nella società prevalèssero le spinte centrìfughe. La proporzione fra conservazione ed innovazione deve pèndere in modo inequivocàbile dalla parte della conservazione affinché la vita si serbi armoniosa e stàbile. E' d'uopo conservare e lasciare a pochi il còmpito d'esplorare il nuovo. Ti faccio un esempio: da due mesi sono in Italia. Ebbene ogni santo giorno prego Iddio che gli italiani impàrino a conservare meglio i loro beni inestimàbili: dalle infinite òpere d'arte ai boschi, dalle strade che percòrrono alla natura alpestre e marina... Quanto deve ancora imparare questo pòpolo!".

I maggiori teatri lìrici òspitano le tue opere. La tue composizioni sono quasi tutte registrate da una casa d'incisione tedesca di prestigio internazionale: il catàlogo contempla una settantina di dischi. Ben pochi artisti viventi sono in grado di vantare una diffusione così capillare e costante delle loro òpere (anzi, la mùsica degli artisti contemporanei, a torto o a ragione, non trova che spazi mìseri e assai saltuari). Sei soddisfatto? 

 "Non propriamente. Vorrei che il pùbblico ascoltasse e giudicasse la mùsica che compongo senza subire l'influenza di voi musicòlogi e crìtici. Vorrei che ciascuno si formasse delle mie òpere un'idea originale. Del resto i concerti comprendenti miei lavori sono ancora pochi e la maggior parte degli intèrpreti di grido si rifiuta di mètterli in repertorio, o addirittura d'eseguirli una volta. Ho soggiornato per sei mesi in Giappone, ad Osaka, in occasione dell'Esposizione universale, e la mia mùsica è stata ascoltata da più d'un milione di persone. Sì, sul momento ero soddisfatto, poi ho riflettuto: che cos'è un milione di persone a fronte dei centocinquanta milioni di giapponesi od al miliardo circa di cinesi che non mi hanno mai ascoltato? Come vedi, tutto è terribilmente relativo...".

A tuo parere, che cosa differenzia la mùsica dalle altre arti? 

 "Un'organizzazione strutturale e linguìstica assai più intelligente. Il pittore, il poeta, lo scultore, l'architetto, il drammaturgo hanno sempre idealmente mirato alla ferrea logicità della mùsica. Ancora: la mùsica è penetrata da chiunque suoni uno strumento mentre le altre arti sono serrate in se stesse. La mùsica è in Occidente la più alta e sviluppata disciplina dell'attività umana. Soltanto in Giappone vi è qualcosa d'altrettanto perfetto: l'arte preziosissima di fare il tè e la composizione floreale".

Che cosa manca ancora alla felicità del mondo? 
 "Il futuro".
Credi in Dio? 
"Sì, credo in Dio. Sono un àtomo di Dio. Partècipo del suo corpo divino. Io, tutti noi siamo in Lui; l'universo tutto, che costituisce la più bella sinfonìa che possa èssere udita: nel passato, nel presente, nel futuro".
E nel diàvolo? 
 "Esiste anche il diàvolo. E' lo spìrito malsano dell'universo che vorrebbe impedire l'ingresso dell'uomo nel processo dell'evoluzione còsmica".
Ti consìderi un genio?
  "Sono quello che sono, e non ho tempo da pèrdere nelle definizioni. Lo decìdano i musicologi, o gli stòrici della mùsica quando sarà".



Ugo Spirito

Ho incontrato Ugo Spirito pochi giorni prima che venisse a mancare. E' questa l'ultima testimonianza del filosofo sulla sua concezione estètica considerata sotto l'angolazione dell'esperienza musicale.
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In Roma, maggio 1979
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Pochi filòsofi sono stati fermamente convinti come Ugo Spirito di non possedere la "conoscenza" della vita e del mondo, ossia di vivere il "dubbio" quale categorìa suprema dell'attività conoscitiva. "Sono un incosciente" dichiara il caposcuola del "Problematicismo", uno tra i più vivaci protagonisti del pensiero contemporaneo. "Non riesco a dare un senso unitario alla molteplicità dell'esperienza: tutto ciò che ho fatto e pensato nel corso del mio itinerario spirituale non si è mai rilevato col carattere della necessità, dell'evidenza obiettiva, della finalità".
Eppure questo pensatore aretino all'apparenza privo di "metafìsica", ha saputo allevare e plasmare, con l'insegnamento accadèmico e numerosi scritti, generazioni di studiosi: sono stati ben trenta i suoi allievi divenuti titolari di cattedra universitaria nelle discipline filosòfiche.
Con paradigmàtico rigore ed onestà intellettuale, Spirito ha altresì affrontato in due volumi - "La vita come arte" e "Critica dell'Estetica" - il significato e il valore dell'attività artìstica ed estètica nel mondo moderno. E nell'àmbito di tale problematica ho inteso discorrere con maestro - il mio maestro alla "Sapienza" di Roma (1) - intorno ai suoi rapporti intellettuali ed emotivi con l'arte dei suoni.  L'incontro, avvenuto in casa di Spirito, ha preso le mosse dal significato originale di "mùsica". Parlare di mùsica equivale a porsi il problema del linguaggio. Un linguaggio che o trascende tutte le altre lingue o è individuàbile in una particolare lingua. Evidentemente il linguaggio musicale ha caràttere universale. Non di meno esso si èsplica in forme affatto differenti. Ad esempio, se il linguaggio musicale occidentale fondato (fino a ieri) sulla tonalità è compreso e diffuso in Oriente, non altrettanto accade per la mùsica orientale od africana presso il pùbblico occidentale.
Obietta Spirito: "Ho girato il mondo, e nei Paesi dove mi sono trattenuto ho sperimentato la mùsica locale. Ebbene, non sono mai stato nell'impossibilità di apprezzarla. E' necessario esercitarsi ed accettare senza "pregiudizi" anche ciò che non risponde alle nostre abitùdini auditive".
La conversazione cade sui destini della musica. E' noto che non sono pochi coloro che preconizzano la "morte" della musica. "Penso il contrario. Se la crisi della pittura riveste caràttere sostanziale - un'arte votata forse a semplificarsi nella mera decorazione ornamentale - per la mùsica ritengo che si dischiùdano feconde prospettive".

Quali fattori detèrminano il Suo ottimismo?
 "Il sorgere di esperienze musicali sempre più complesse e distanti dalla tradizione dei vari linguaggi musicali realizzati nel mondo. Diciamo con tèrmini più usuali che il pentagramma ha oggi minore significato d'un tempo".
A quali esperienze si riferisce?
All'impiego del rumore. Infatti il problema agitato nel presente è quello della mùsica del rumore, che non ha nulla da spartire con gli ingenui tentativi di Pratella e dei Futuristi nel primo ventennio del Novecento. Noi si vive nei rumori: non è possìbile assùmere di fronte ad essi un atteggiamento radicalmente negativo. Dobbiamo per contro trasformare il rumore per elevarlo a dignità d'arte. La mùsica elettrònica, concreta, aleatoria, i nastri magnètici, stanno lì a dimostrare il progressivo distacco dal pentagramma e nel contempo l'esigenza di realizzare nuove esperienze linguìstiche. Il rumore è del mondo, e del mondo in tutte le sue forme: dalla natura all'industria pesante. Io attribuisco ad esso un valore fondamentale".
Però non Le sembra che la società avverta con prepotenza il bisogno di eliminare il rumore in quanto ingombra ormai la vita dell'uomo?
"Questo accade oggi. Domani avremo la possibilità d'attribuirgli un coefficiente positivo nella nostra esistenza".
Ma la sublimazione del rumore, vale a dire una sua rifondazione nella dimensione estetica, non si traduce nel suono quale è stato inteso sino a ieri? "Certamente. Quando di fronte al rumore cominceremo a provare gioia, è logico che questo rumore ci offrirà la medesima nutritura spirituale del suono".
A giudizio di Spirito il passaggio del rumore da fenomeno passivo ad attivo è d'importanza basilare. Un tempo il rumore apparteneva essenzialmente alla natura: il vento, la tempesta, la pioggia, il mare... E' quindi subentrato un altro tipo di rumore: quello che affianca il quotidiano vìvere, ovvero quello industriale. Dice il filosofo che sarà proprio il rumore che oggi terrorizza ed aliena ad alimentare la sonorità futura. Sottolineo a Spirito che per l'intanto il pubblico rifiuta d'istinto e in maniera dràstica le esperienze dell'Avanguardia, le quali pur si rifanno alla vita presente di cui utilizzano i moltèplici materiali. "Non è vero - ribatte il filosofo - che il pùbblico respinga il rumore. E' vero che ne sono rifiutate alcune manifestazioni ed accettate altre. Nell'Italia meridionale, ad esempio, i rumori prèndono un segno positivo: il napoletano vive di rumore. In Cina i fuochi d'artificio sono rumore: rumore in grandissimo stile. In alcuni Paesi il "rumore" del linguaggio parlato emana un fascino peculiare. Quante volte in un salotto abbiamo osservato la felicità prodotta da una conversazione "rumorosa"? La gente non rifiuta in toto il rumore. E soprattutto non lo rifiuta il bambino, cioè quella umanità avvezza non a odiare ma ad amare. Il bambino ama il rumore, anzi, lo preferisce al suono".
Ugo Spirito pone in relazione il rumore con la felicità. Però le mùsiche della seconda metà del Novecento possèggono in sé e sprigiònano una sorta di trauma, di nevrosi. Lo stesso compositore impiega sovente il rumore quale denunzia di una civiltà lacerata, andata depauperàndosi dei più profondi postulati umanìstici.
Contesta il filosofo: "E' il limite da oltrepassare... Al proposito mi consenta di raccontarLe un anèddoto. Amedeo Maiuri, il cèlebre archeòlogo degli scavi di Pompei, abitava a Napoli, nella zona di Toledo, ossia nel centro più caòtico della città. La mattina, la cameriera era sòlita aprire le finestre per far le pulizìe. E dalle finestre entrava in casa il rumore assordante delle strade e dei vìcoli. Esasperato, Maiuri una mattina chiamò la donna: "Per favore, chiudete le finestre che non ne posso più. 'Sto rumore mi fa uscire pazzo!" E la cameriera partenopea ridendo di cuore: "Ma lassàtelo trasì, 'sto bello rumore, lassàtelo trasì...". Ora, quando si parla di nevrosi, di trauma, si accentua un elemento negativo appartenente ad un'educazione convenzionale, pìccolo-borghese, del concetto di rumore, da superare perlappunto mediante una nuova estètica. Non ha senso elùdere o respìngere una parte ormai costitutiva della realtà odierna".
Fissare un rapporto tra nevrosi e rumore significa per Spirito rifarsi al processo di trasformazione della società. Il rumore rientrerebbe in una tra le tante manifestazioni di un'imponente conquista tecnològica, a seguito dello sviluppo dell'industrialismo. Qual è stata questa conquista tecnologica? La velocità. Fino al secolo diciannovèsimo la velocità màssima conosciuta era quella degli animali, degli uccelli e dei cavalli. Ora abbiamo conquistato quella dei mìssili. E ce n'è una ancora superiore: la comunicazione dei mass-media che ci consente di guardare ed ascoltare ciò che accade agli antìpodi: la velocità ha eliminato le distanze. Tuttavia l'organismo umano non è ancora avvezzo a sìmili velocità e ne patisce i contraccolpi. Ecco la nevrosi, segno distintivo delle nuove generazioni, elemento precipuo dell'uomo che non riesce ad adattarsi alla velocità. Si è tempestati dalla radio e dalla televisione da mattina a sera e non si può non ascoltare e vedere ciò che è imposto. La nevrosi colpisce l'individuo sbalzato d'improvviso dalla velocità del messaggio recato a mano a quella della comunicazione fulminea agli antìpodi.
Domando al mio interlocutore se il giudizio che ha per oggetto la mùsica del rumore possa assumere il medesimo valore del giudizio rivolto alla musica tradizionale. "Quello del domani sarà il rumore a cui saranno state educate le prossime generazioni. In esso udranno armonìe che noi non sappiamo ancora distìnguere: armonìe da valutare al pari del suono ".
Osservo che, in ogni caso, la melodia che io canto è un "segnale" poetico dello spìrito; il rumore della società contemporanea è un prodotto artificiale di mera fisicità. Riponde: "La genetica ci insegna che anche le espressioni della poesìa sublime altro non sono che fenòmeni chimici: come tali sono analizzati i Sonetti di Petrarca e le Sinfonie di Brahms, e alla stessa guisa è dato rintracciare nel cervello umano la reazione chìmico-fìsica provocata dall'ascolto di quei versi e di quella musica. Tra anima e corpo l'identità è perfetta".


 Se così è, crolla ogni fondamento per un'estètica metafisica: crollo che Spirito addebita ai corifei della psicanàlisi freudiana, rivelatasi infondata. "Freud non possedette la necessaria preparazione filosòfica per intuire che cosa fosse l'inconscio. In vero, tutta la realtà è inconscia, cioè còsmica: non è né umana né individuale. Ed essendo cosmica, tutto il mondo è armonìa, compreso il rumore, espressione dell'universo".
Se tutto è armonìa, il concetto di Bello non naufraga forse nell'indistinto, ovvero non perde di significato?

 "Il valore di un concetto è nella determinazione dell'universo in una peculiare espressione. Un pacchetto di sigarette è espressione dell'universalità, prodotto del cosmo. In esso trovo l'universo perché l'universo ha concorso alla sua esistenza. Non v'ha frammento della realtà che, per èssere, non abbia bisogno del concorso d'ogni fattore del mondo. Se toglièssimo al pacchetto di sigarette la realtà del mondo, il pacchetto non esisterebbe più".
Dunque anche "Parsifal" è prodotto còsmico. Il capolavoro wagneriano è armonìa universale allo stesso modo del pacchetto di sigarette? Siamo immersi nell'assoluto?

  "Al contrario. Viviamo quotidianamente non di unità ma di frammenti. Dal mattino alla sera trascorriamo da un'esperienza all'altra. Ci si mette a tavola e si mangia un piatto di spaghetti: in quel momento gli spaghetti rappresentano l'assoluto. Poi si fuma una sigaretta, e questa diventa l'assoluto. Poi si ascolta una pàgina di Bach e il massimo compositore tedesco assurge all'assoluto... Non ci è però concesso di saldare la frammentarietà delle esperienze, e quindi non ci è possibile un discorso unitario...Se io fossi in grado d'abbracciare la totalità, sarei in possesso di Dio. Il religioso lo possiede, o quanto meno crede di possederlo. Io invece Dio lo vado cercando, e intanto vivo di frammenti. Di conseguenza non sono in grado neppure di definire l'assolutezza del Bello sicché i miei giudizi, calati nell'empirìa, rivestono un carattere del tutto relativo".

Una dùplice crisi investe il mondo moderno, a giudizio del pensatore aretino: una filosòfica ed una scientìfica. La crisi di segno filosòfico è stata originata dal passaggio dal dogmatismo al criticismo; dall'Illuminismo e da Kant in poi siamo stati paralizzati dal dubbio: a fronte d'ogni affermazione siamo rimasti titubanti. La filosofia, potere sintètico par excellence, ha fallito. La scienza, dal canto suo, ha sostituito il particolare all'universale, e si è fatta specializzazione. "Dopo aver studiato tutta la vita il problema del rapporto tra ànima e corpo, sono pervenuto alla conclusione che non ho possibilità alcuna di conoscere me stesso".
La coscienza dei propri limiti, la consapevolezza del dubbio, non è possesso indiretto dall'assoluto?

 "Il bisogno identificato col possesso si chiama illusione. La coscienza dell'illusione ingenera il dubbio".
Ciò non ostante dopo aver ascoltato Beethoven, o letto Goethe, o guardato Raffaello, Lei non fòrmula un dubbio ma un giudizio positivo.

 "Nel momento immediato d'ogni esperienza vivo l'esperienza singola come totalità, e quindi fòrmulo un giudizio. Ma sùbito dopo mi sorge il dubbio: sarò nel vero? Oggi Goethe mi piace, ma domani chissà... Prendiamo Dante: oggi piace a tutti, ma nel Settecento a molti studiosi e letterati non piaceva punto, e fra un secolo o due?...".
Su questa strada diviene impossibile attribuire una ragione ed un significato anche alla Storia. 

"E' ovvio. La Storia, dominio della realtà, è illusione perché presuppone in chi la fa potere di sintesi. L'uomo invece non può far altro che crònaca".
Il dubbio radicale di Spirito dovrebbe almeno comportare il màssimo rispetto per i convincimenti e le opinioni altrui...

 "Il massimo rispetto per le altrui opinioni è una delle tante affermazioni quotidiane, poi intramezzata da altre che contraddìcono quella del rispetto delle opinioni altrui. Nel corso di una giornata posso dare approvazione e disapprovazione insieme per uno stesso argomento...".
D'altronde se Ugo Spirito avesse potuto conclùdere in modo decisivo intorno ad un qualsivoglia argomento, fosse pure marginale o banale, avrebbe trovato un assoluto. Cioè Dio. Al contrario egli ha trovato solo contraddizioni, cioè il Nulla.

(1) Ragazzo non meno ignorante che sprovveduto, volli affrontare come primo esame del Corso di Laurea in Estetica musicale l'esame di "Filosofìa teorètica", di cui aveva la cattedra Spirito. Il quale mi fece gentilmente accomodare nel suo studio, m'invitò a sedermi sulla sedia di fronte a lui ed a presentargli il libretto. Sul quale lesse che non avevo ancora sostenuto alcun esame. Si tolse gli occhiali, poggiò il libretto sul tavolo, mi osservò attentamente e dopo un tempo indeterminàbile mi domandò con tono di verace incredulità: "Ma Lei vuole sostenere un esame come questo essendo a digiuno d'una minima esperienza di base a carattere filosofico? Vorrei prendermi l'ardire di consigliarLe altri esami, per così dire propedèutici, prima d'affrontare questo. Posso assicurarLe che poi saremo più soddisfatti entrambi". E mi riconsegnò il libretto con un lusinghiero sorriso paterno ma in una maniera che equivaleva ad un congedo immediato e incontrovertìbile... Preparai in fretta e furia con un mio amico un esame secondario di filosofìa e dopo circa un mese mi ripresentai a Spirito. Non mi riconobbe, o meglio, non volle riconòscermi. Né volle aprire il mio libretto. Affàbile e rigoroso mi tenne sotto torchio per oltre mezz'ora. Alla fine aprì il libretto, vi scarabocchiò sopra qualcosa e me lo riconsegnò chiuso. Ringraziai ed uscii stremato dalla stanza. Con il cuore in gola, nel corridoio aprii subito il libretto. Vidi che c'era scritto "Trenta con lode". Incominciai a saltare dalla gioia come un invasato e pensai tra me: "Ehi! vecchio barbuto, scommetto che hai dato questo voto non alla mia preparazione ma alla tenacia della mia sfacciatàggine. Bravo! è così che deve fare un cattedràtico paraculo come Te! Sarai il mio maestro, insieme a Voltaire".