domenica 14 ottobre 2012

Uto Ughi

Presenza costante e confortante nel corso della mia trentennale esperienza di musicòlogo e crìtico  musicale, Uto Ughi è insieme a Salvatore Accardo il violinista di maggior rilievo artistico del secondo Novecento italiano. Interprete impetuoso e soave, calligràfico e rigoroso, "segretario" di Mozart e Paganini, amante dei violinisti-compositori tra Otto e Novecento, cui suole da sempre dedicare i fuoriprogramma più capricciosi e maliziosi a definitivo trionfo dei recitals.
Riporto di sèguito una parziale e manchevolìssima sìntesi delle numerose conversazioni che ho intrattenuto con il musicista lombardo lungo gli anni...
Le Sue origini musicali?
 "Mio padre era un avvocato segnato un travolgente amore per il violino. Invitava a casa gli amici, tra cui Ariodenta Coggi, primo violino di Toscanini nell'Orchestra della Scala, e insieme facèvano mùsica camerìstica. Nel fàscino di quelle serate forse nacque la mia passione. Coggi m'insegnò per i primi cinque anni. A dieci fui mandato a Parigi per studiare con il rumeno George Enescu: l'esperienza più gratificante della mia giovinezza. Purtroppo nel 1955, dopo appena due anni, il maestro si spense e io non potei usufruire appieno dei suoi preziosi insegnamenti. Enescu non era un pedagogo stricto sensu ma il musicista che comunica mùsica. La sua impronta su di me è rimasta tenace. Ricordo che una volta volli andare all'Opéra di Parigi per ascoltare "Der Freischuetz" di Weber e chiesi consiglio a Enescu. Mi rispose: "Ascolta, se ti piace andrai a teatro". Sedette al pianoforte e lungo l'intero pomeriggio suonò per me il capolavoro weberiano, dalla prima battuta all'ùltima. Il suo era un insegnamento inteso come missione".
I compositori che più hanno influito sulla Sua formazione musicale?
 "Bach e Paganini. Il primo per quanto concerne la tecnica in funzione dell'espressione musicale. Nelle sue sei Sonate per violino risiede implicitamente tutta la mùsica intesa a questo strumento. Il secondo per la modernità della tecnica linguistica".
Ama suonare anche in formazioni cameristiche?
 "Non c'è dubbio. Beethoven, Schubert e altri grandi romàntici hanno espresso il meglio di sé nelle pàgine cameristiche. Per apprezzare a fondo gli ùltimi Quartetti beethoveniani non basta una vita di studio. E il violinista che li ha familiari - mi confermò Sandor Vegh - suonerà meglio anche il Concerto in re maggiore di Beethoven.
Quali sono gli incontri fondamentali della Sua vita? 

"Uno è stato con lo scrittore argentino Jorge Luis Borges che conobbi durante un soggiorno a Buenos Aires nel 1980. E' stato tra i personaggi più poliedrici e affascinanti da me avvicinati. Mi ha impressionato la sua lucidità mentale e la freschezza delle immàgini. Borges era cieco, però parlava e scriveva per immàgini come se avesse stagliati dinanzi a sé i personaggi, le loro situazioni, la loro època. La sua descrizione si realizza in modo miràbile sotto forma pittòrica".
Le piacciono "Ficciones?

 "Sono tra le cose più belle. Ma amo anche le sue poesie: è un lirico straordinario".
E gli incontri nel mondo della musica?

 "Fui assai impressionato da Andrés Segovia quando lo conobbi nel 1981 a Venezia in occasione del Premio assegnàtogli . Mi ha meravigliato la sua schiettezza e sincerità. Il sommo chitarrista non temeva certo di formulare giudizi inequivocàbili; bando alla diplomazìa, non  aveva peli sulla lingua. Non era d'accordo, per esempio, su quanto dicevo prima di Borges. A suo giudizio mancavano allo scrittore argentino la poliedricità e la complessità intellettuali. Ma non ci credo. Borges, come dìcono gli inglesi, era molto "twist": procedeva per scorciatoie dialèttiche... Altro memorando musicista fu lo statunitense Yehudi Menuhin, figura di singolare sottigliezza razionale, fornito di una forte capacità d'astrazione. Gli interessi che coltivava si estendèvano alle filosofìe orientali: praticò lo yoga e soggiornò per lunghi periodi in India. Viaggiò per tutto il mondo e incontrò genti di regioni remote. La differenza tra Segovia e Menuhin consisteva nel fatto che il chitarrista era concreto, immediato, e s'avvertiva in lui il buon senso tipico dello spagnolo, mentre il secondo era assai più logico e raziocinante: quasi un personaggio borgesiano".
Lei ha conosciuto un altro cèlebre violinista: il polacco Henryk Szeryng...

 "Un uomo di rara intelligenza. Si divertiva a recitare un po' la commedia, e vantava rare doti diplomatiche, sostenuto da una non comune furbizia. Anche lui molto concreto, capiva le situazioni a colpo d'occhio, ciò che era opportuno dire e ciò che era meglio tacere. Straordinario show-man, che talvolta esagerava".
Tuttavìa mi pare che quando suonava il violino, Szeryng trasformasse questo lato clownesco in autenticità d'interpretazione e veridicità d'espressione...

 "E' vero, soprattutto in Bach. A mio giudizio è stato l'interprete bachiano per eccellenza del suo tempo".
Quali sono stati, tra i violinisti, i più profondi intèrpreti di Bach, di Mozart e del Concerto in re maggiore di Beethoven?

 "Di Bach, oltre a Szeryng, e in taluni momenti, Menuhin. Ma la mia citazione dei nomi è limitata e condizionata dal fatto che numerosi fra i grandi intèrpreti non hanno registrato le mùsiche bachiane. Fra gli assenti due violinisti ucraini del càlibro di David Oistrach e Isaac Stern, mentre il belga Arthur Grumieux ne ha incise soltanto talune. Il quale ha nondimeno offerto la più bella versione dei Concerti mozartiani. Quanto al capolavoro beethoveniano direi Oistrach dal vivo e, in registrazione discogràfica, il boemo Joseph Suk (nipote dell'omonimo e magistrale violinista vissuto tra il 1874 e il 1935), che però in Italia ha suonato di rado pur essendo stato valentissimo intèrprete del repertorio clàssico: da Bach a Beethoven, da Mozart a Schubert".
Un altro favoloso violinista del secondo Novecento è stato il russo Leonid Kogan. Un tempo lo si paragonava a David Oistrach per potenza d'espressione, tecnica trascendentale, brillantezza e purezza del suono. E' d'accordo?
"Debbo confessare che Kogan ha saputo darmi profondissime emozioni. Negli ultimi anni di vita è stato male in salute: tante volte lo vedevo in palcoscenico con un volto spettrale. L'avevo conosciuto in occasione del Concorso "Paganini", quando eravamo entrambi in giurìa: per una decina di giorni discorremmo di numerosi argomenti . Era persona squisita. Mi confidava che aveva dato troppi concerti, uno di sèguito all'altro, in Europa, Amèrica e Asia: centinaia di serate. E suonò fino allo stremo, senza badare a risparmiarsi. Si macerò sul violino. Avvertivo in alcune esecuzioni la spossatezza accumulata, ma rimaneva un musicista eccezionale".
Come intende Lei il virtuosismo? Che rapporto vi è tra virtuosismo, tecnica e interpretazione?
 "Il virtuosismo dev'èssere in funzione dell'espressione musicale. Il vero virtuosismo risiede nel rèndere la frase nella veste più sèmplice, al colmo della bellezza di suono, di dosaggio dinàmico e agògico. Virtuosismo non è eseguire una scala in modo celèrrimo, cosa che con un po' d'addestramento e allenamento, diceva Wilhelm Furtwaengler, è agèvole ottenere. La meccànica e la tècnica non sono altro che il punto di partenza".
Il vero virtuosismo è pertanto l'apparire e l'affermarsi della semplicità, quando tutte le difficoltà d'òrdine tècnico ed espressivo si acquietano in un fenòmeno. In tal senso il virtuosismo è al servizio dell'interpretazione. Ma quale è il Suo concetto d'interpretazione?
 "Non esiste un solo concetto. In un'accezione generale, interpretare è penetrare lo spìrito del testo, tra le righe, di là dalla mera notazione; scandagliare la trama dell'òpera, conòscerne il compositore, il suo stile, l'època che lo accoglie, il mondo culturale che lo sollècita e condiziona".
Interpretare è dunque storicizzare. Ma l'anàlisi stòrica in quale rapporto si pone con la soggettività, l'humanitas, il sentimento dell'interprete? L'interpretazione quanto è fedeltà e adesione allo spìrito del testo e quanto invece è ri-creazione?
"Stabilirlo è problematico. Segovia affermava che interpretare è sapienza, conoscenza e saggezza in uno. Sapienza è sapere che cosa fare; conoscenza è come farla; saggezza è farla. Penso che, in ogni modo, l'ispirazione debba godere di un largo spazio".
Può l'ispirazione mutare di sera in sera? 
"Sicuro. Cambia con lo stato d'ànimo o, più semplicemente, con il grado di ricettività dell'orchestra o del pùbblico".
Il pubblico La condiziona?
 "Non me soltanto. Tutti gli intèrpreti sono antenne riceventi e trasmittenti . Un uditorio distratto, o disperso in una grande sala, può tògliere concentrazione anche all'esecutore, mentre due o tremila persone concentrate emànano onde positive e benèfiche sul musicista che le capta e le volge a vantaggio della propria espressione".
Quindi l'interpretazione riversata su disco risulta inferiore a quella dal vivo, in concerto?
 "Secondo me, la prova della verità interpretativa si coglie attraverso un'incisione effettuata dal vivo. Si prèndano ad esempio le incisioni delle Sinfonìe di Brahms e di Beethoven dirette da Furtwaengler durante un'esecuzione pùbblica. Si sente il pùbblico tossire, le poltrone scricchiolare e la tècnica d'incisione non così buona quanto lo sarebbe con i mezzi della tecnologìa moderna. Eppure ci si trova di fronte a lezioni interpretative insuperate per fantasìa, immaginazione e afflato musicale. E' questa elettricità che corre tra pùbblico e intèrprete".
Mi risulta che i rapporti tra Uto Ughi e la mùsica contemporanea sìano piuttosto delicati.
 "La mùsica contemporanea va conosciuta e studiata. E digerita, benché costi fatica. Non posso definirmi un supporter delle produzione dei giorni nostri . Probabilmente si tratta di una mia lacuna...".
E non reputa opportuno colmarla?
 "Certo. Con lo studio, con l'anàlisi e infine con l'accettazione. Però accettarla non signìfica necessariamente amarla. E' una questione d'inclinazione e gusto soggettivi. La mùsica, a mio avviso, è finita all'incirca alla metà del ventèsimo sècolo. Qui la Tradizione si è inabissata. E' stato un trauma violento, con tutte le conseguenze che stanno davanti ai nostri occhi".
La mùsica non è espressione abbastanza fedele del tempo in cui nasce?
 "D'accordo. E non possiamo respìngere il tempo che ci dà vita. Eppure può accadere di non trovarci bene in questo tempo".
E' il Suo caso? 
"Per certi versi sì. Noi oggi usufruiamo di una maggiore libertà che nel passato, di una più ampia informazione, di più fitti scambi umani e sociali. Per altro verso assistiamo a uno spaventoso appiattimento dei valori. La gente è resa uniforme dai modelli imposti dai massmedia. In poche ore sei portato da Milano a Los Angeles. Tutto è sìmile, o meglio, tutto tende all'indifferenzazione degli usi, dei costumi, dei linguaggi delle culture... Le sale da concerto sono uguali a Tokyo, Berlino, New York...".
Intende dire che il mondo si va chiudendo in una sorta di morsa curtense? "Sì , ed è fenomeno innaturale e inquietante".
Oltre la mùsica, che cosa vale per Lei?
 "La vita quotidiana, il contatto con la gente. Non è possìbile interpretare senza vìvere. La mùsica è un'altìssima forma di vita, d'interpretazione di se stessi e delle proprie conoscenze, filtrate attraverso la sensibilità. La musica forma il caràttere; è scuola e palestra formidàbile d'organizzazione e disciplina mentale".
Da che cosa è alimentata la Sua anima?
 "Forse dal desiderio del confronto continuo, dalla volontà del miglioramento, dal porre sempre tutto in discussione e non accettare mai un dato come definitivo. Mi sembra dicesse Voltaire che il dubbio ha da èssere la matrice di ogni nostra azione".
Uto Ughi visto da se stesso? 
"Un uomo che dopo aver trascorso la giornata nello studio del violino - dalle sei alle dieci ore quotidiane - non gli rimane che un lembo risicato di cervello, di elasticità e ricettività mentali per dedicarsi a ciò che ancora gli piace. Mettiamo, leggere un libro. In realtà dovrei limitare il numero dei concerti, come facevano Kleiber e Giulini. Altrimenti si corre il rischio di cadere nella stasi intellettuale e nella routine dell'interpretazione".
Che cosa più La esalta e la offende nella vita? 
"Ad offendermi è la malafede, il partito preso, la mancanza di coerenza. Mi esalta esattamente il contrario: il coraggio d'affrontare le situazioni seppur sgradèvoli a viso aperto. Oggi si è sovente vìttime del conformismo, della paura di sincerità, del compromesso. Temiamo gli errori che potremmo commèttere, il giudizio altrui e sospettiamo di èsserne scorticati vivi... Ma io resto dell'opinione che sbagliando s'impara".





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