domenica 14 ottobre 2012

Maurizio Pollini

Classe 1942, il milanese Maurizio Pollini, giovanìssimo, suonava nelle fabbriche per gli operai. Oggi suona ovunque, per tutte le ànime. E' il maggior pianista italiano vivente; il maggiore del secondo Novecento italiano, dopo Arturo Benedetti Michelangeli. Per sòlito, coloro che hanno un grande spìrito, l'hanno ingenuo, così sta scritto anche nei "Cahiers" di Montesquieu. Pollini: un ingenuo, orientato da una coscienza morale d'uomo e d'artista sì acuta da sembrare affatto inattuale lungo i sentieri del nostro mondo sciancato e bischero...

Se dovesse delineare un bilancio della vita culturale ed artistica del nostro Paese negli ultimi trent'anni?
 "L'Italia è stata da sempre baciata dalla fortuna, bella dei vèrtici dell'arte, della cultura, del paesaggio... Tutto vi è meraviglioso: quasi come lo è nella Città del sole di Campanella o in quell' "ou tòpos" di Thomas More. Purtroppo gli italiani hanno gestito quell'immenso patrimonio in maniera screanzata e dissennata, alienando a se stessi un invidiàbile benèssere spirituale ed econòmico". Perché è accaduto ciò? "Per la mancanza del senso dello Stato. Per la sbandierata convinzione: ognuno per sé e Dio per tutti. Per la tàcita certezza che si possa sempre farla franca. Senza porre mente che  alla fine i nodi vèngono al pèttine.

Può ancora legittimamente la mùsica d'arte occupare un valore ideale nella società contemporanea?
"Non posso fornire una risposta ottimìstica. Ad esempio, il posto che essa òccupa in particolare nella società italia è assai modesto. Ciò accade non per ragioni trascendentali, per occulti disegno del fato, ma semplicemente perché per lunghi decenni non è stata fatta da chi di dovere una promozione adeguata. I mass media hanno ignorato e ignòrano la mùsica d'arte se non nelle sue manifestazioni più esteriori e insulse, ove ci abbàgliano sovente aspetti deteriori e mondani che non pertèngono ai valori profondi dello spìrito. Si consideri altresì che la crisi del rapporto tra mùsica e società è in parte da addebitare alla mancanza di coraggio degli organizzatori musicali: i quali làsciano impigrire e alienare il gusto del pùbblico nel consumo dell'angusto e abusato repertorio clàssico-romàntico. Che in tal maniera svuota esso stesso della vivezza dei contenuti che lo ànimano e fanno grande, per ridursi non di rado a materia d'ascolto meramente e futilmente edonìstica. Non bisogna dimenticare che la storia della mùsica, fra luci e ombre al pari della storia d'ogni linguaggio artìstico - poesìa, architettura, scultura, etc... - non esaurisce la propria ricchezza nei "perìodi d'oro" bensì trae ragioni d'èssere dalle èpoche precedenti a quelli e dai tempi del presente. La mùsica contemporanea ci porta i propri doni, allo stesso modo di quelle dell'età barocca, rinascimentale, medievale. Io ho abituato mio figlio, fin dalla più tenera età, ad ascoltare la mùsica contemporanea: da ragazzo conosceva a memoria pàgine di Stockhausen come se fossero di Bellini o Chopin".

E però Mozart e Beethoven la gente se li sente fratelli mentre Stockhausen e Boulez manco remoti parenti. Perché questo accidente ingrato?
"Accennavo prima alla responsabilità. Se gli organizzatori delle stagioni concertìstiche e lìriche, se gli intèrpreti, se i crìtici, se le case discogràfiche, se radio e televisioni, se la scuola diffondèssero con maggiore assiduità e costanza la mùsica del nostro presente, così come pure quella prebarocca, ognuno di noi si sentirebbe più imparentato ai due compositori novecenteschi da Lei citati. E' un mero problema d'abitùdini. Mettiamo: succede a qualcuno di prender l'abitùdine d'èssere infelice".

Converrà tuttavia che non tutti gli intèrpreti sono dotati del Suo carisma. Tale che se Lei suona Mozart o Beethoven vien giù il teatro per l'entusiasmo plebiscitario. E se suona Stockhausen o Boulez, lo stesso. La maggior parte degli interpreti rilutta ai due contemporanei poiché non sarebbe verosimile affermare che essi siano forieri di disfrenati invasamenti delle platee.
"Plutarco ci insegna come la perseveranza sia più efficace della violenza e come molte cose che unite insieme sono indomàbili cèdano quando uno le affronta poco per volta. Importante è cominciare: da parte dell'intèrprete, e del pùbblico".

Quali sono le scritture pianìstiche più raffinate del Novecento?

 "Dagli albori eròmpono Debussy e Ravel, e i timbri rivoluzionari di Stravinskij. Copiose di intuizioni le scritture dei tre maestri dodecafònici viennesi: Schoenberg, Berg e Webern. E fra gli eccelsi protagonisti del pianoforte del ventèsimo sècolo non si può non citare Bartòk... Eppoi ancora Boulez, il nostro Salvatore Sciarrino, e Stockhausen dotato di una scrittura tale da far sì che gli stessi suoi allievi rièscano a rendere le potenzialità e il ribollire della fantasìa del maestro tedesco". Dunque il vecchio e glorioso pianoforte non è declinato nell'infàusto e decrèpito Novecento? "Tutt'altro. Forse quel sècolo non conta tanti geni del pianoforte quanto l'Ottocento, da Beethoven a Liszt, ma circa la qualità non v'ha crisi".

Meglio commetere agli intèrpreti-filòlogi le òpere dell'Antico? e magari ad achilleschi specialisti i brani della nostra controversa contemporaneità? Mi pare daltronde che sia questo costume abbastanza diffuso.

 "Non credo nell'esclusività filològica. Ogni vero musicista deve saper affrontare una pàgina del Seicento come del tardo Novecento. Guai ad elevare frontiere e steccati: si uscirebbe dalla realtà pulsante dell'arte per introdursi in un diaccio laboratorio anatòmico".

La tècnica è essenziale all'espressione del contenuto poetico, oppure è possìbile sbagliare le note e centrare la verità del segno?

"Negli ùltimi anni dell'attività concertìstica Alfred Cortot le note le sbagliava, ma il suo "suono" chopiniano possedeva tale profondità e intensità lìrica che la "verità" affiorava comunque, per non dire potenziata. E quel suono arcano e demònico era anch'esso "tècnica", o almeno il frutto di una tècnica. Badiamo a non equivocare: la tècnica non è soltanto quella manuale, fìsica, che si risolve nella sèmplice fattura meccànica delle note esatte sulla tastiera. Essa è un'organizzazione generale dell'impianto strumentale; un òrdine, una chiarezza razionale degli strumenti su cui una voce - sia essa di pianoforte, violino, arpa, oboe, orchestra, etc... - imposta il proprio linguaggio".

Ritiene che sia lècito e giusto un dialogo tra la mùsica d'arte e la mùsica di consumo?
"Se ci riferiamo al jazz, sono convinto di sì. Se invece intendiamo per mùsica di consumo le canzonette, ritengo che i due mondi sìano separati da un abisso incolmàbile. Si dimèntica troppo facilmente che l'Arte è una cosa assai seria che coinvolge l'uomo nella sua più profonda e preziosa essenza. Le canzonette che impervèrsano in ogni luogo, ad ogni ora del giorno e della notte, altro non sono che una merce di bassa lega intesa a farci regredire agli ìnfimi livelli della banalità, se non dell'alienazione".

L'avanzare dell'età di che cosa accresce la Sua arte pianìstica ed in che cosa la trascura?
 "Gli anni che sono trascorsi mi hanno portato ad arricchire ed a intensificare la mia capacità d'anàlisi  testuale. Se vuole, la mia sensibilità si è affinata con l'accumularsi dell'esperienza e con la riflessione su di essa. Non c'è dubbio che oggi il mio rapporto con un'òpera di Mozart o di Schoenberg è più complesso e variegato, ed anche più crìtico, di quanto non lo fosse dieci o quìndici anni or sono. Per l'inverso, la ricerca ora mi costa maggior impegno d'un tempo, più dedizione. Si sa, i giovani càntano, e i vecchi riflèttono". 

Quante ore della giornata dèdica allo studio del pianoforte?

 "Non le conto, ma sono numerose. Avviene che trascorra un'intera giornata al pianoforte. Ma ad èssere sincero, non è tanto uno studiare quanto un cercarsi. Mi càpita talvolta di analizzare un'òpera non alla tastiera ma nella mia mente".

E' cosa veritiera asserire che l'intèrprete è il ponte tra l'assolutezza dell'òpera d'arte e il suo divenire stòrico in rapporto al mutarsi delle società?

 "La domanda esige una risposta non agevole. Ché se l'òpera d'arte è assoluta il suo contenuto non può mutare nel tempo e pertanto l'intèrprete svolge la funzione di suo custode: quasi di sentinella. Nondimeno, nella realtà, ogni tempo legge l'òpera d'arte mediante criteri interpretativi differenti, e allora l'intèrprete si fa "voce" di detti mutamenti. E il grande intèrprete diviene colui che fa aderire meglio i contenuti di quell'òpera alla coscienza in atto del fruitore: ossia colui che meglio coglie sotto specie d'immanenza e d'attualizzazione la perennità dell'arte".

Maestro, avrebbe preferito creare anziché interpretare?

 "Non c'è dubbio che la creazione è di gran lunga l'attività più rimarchevole della sfera poètica. Ma ognuno di noi è ciò che ha voluto madre natura. Io non ho mai composto. Piuttosto mi studio di svòlgere il mio lavoro con serietà. All'autore necèssita l'immaginazione creativa; all'intèrprete una connaturata fedeltà al testo. Non si dà antitesi, ma anzi integrazione. Ciò mi conforta".

Crede nel divino?

 "No".
*
L'incontro ha avuto luogo in Roma in due diverse occasioni, nel marzo del 1999 e nel dicembre del 2002. 

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