domenica 14 ottobre 2012

Ugo Spirito

Ho incontrato Ugo Spirito pochi giorni prima che venisse a mancare. E' questa l'ultima testimonianza del filosofo sulla sua concezione estètica considerata sotto l'angolazione dell'esperienza musicale.
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In Roma, maggio 1979
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Pochi filòsofi sono stati fermamente convinti come Ugo Spirito di non possedere la "conoscenza" della vita e del mondo, ossia di vivere il "dubbio" quale categorìa suprema dell'attività conoscitiva. "Sono un incosciente" dichiara il caposcuola del "Problematicismo", uno tra i più vivaci protagonisti del pensiero contemporaneo. "Non riesco a dare un senso unitario alla molteplicità dell'esperienza: tutto ciò che ho fatto e pensato nel corso del mio itinerario spirituale non si è mai rilevato col carattere della necessità, dell'evidenza obiettiva, della finalità".
Eppure questo pensatore aretino all'apparenza privo di "metafìsica", ha saputo allevare e plasmare, con l'insegnamento accadèmico e numerosi scritti, generazioni di studiosi: sono stati ben trenta i suoi allievi divenuti titolari di cattedra universitaria nelle discipline filosòfiche.
Con paradigmàtico rigore ed onestà intellettuale, Spirito ha altresì affrontato in due volumi - "La vita come arte" e "Critica dell'Estetica" - il significato e il valore dell'attività artìstica ed estètica nel mondo moderno. E nell'àmbito di tale problematica ho inteso discorrere con maestro - il mio maestro alla "Sapienza" di Roma (1) - intorno ai suoi rapporti intellettuali ed emotivi con l'arte dei suoni.  L'incontro, avvenuto in casa di Spirito, ha preso le mosse dal significato originale di "mùsica". Parlare di mùsica equivale a porsi il problema del linguaggio. Un linguaggio che o trascende tutte le altre lingue o è individuàbile in una particolare lingua. Evidentemente il linguaggio musicale ha caràttere universale. Non di meno esso si èsplica in forme affatto differenti. Ad esempio, se il linguaggio musicale occidentale fondato (fino a ieri) sulla tonalità è compreso e diffuso in Oriente, non altrettanto accade per la mùsica orientale od africana presso il pùbblico occidentale.
Obietta Spirito: "Ho girato il mondo, e nei Paesi dove mi sono trattenuto ho sperimentato la mùsica locale. Ebbene, non sono mai stato nell'impossibilità di apprezzarla. E' necessario esercitarsi ed accettare senza "pregiudizi" anche ciò che non risponde alle nostre abitùdini auditive".
La conversazione cade sui destini della musica. E' noto che non sono pochi coloro che preconizzano la "morte" della musica. "Penso il contrario. Se la crisi della pittura riveste caràttere sostanziale - un'arte votata forse a semplificarsi nella mera decorazione ornamentale - per la mùsica ritengo che si dischiùdano feconde prospettive".

Quali fattori detèrminano il Suo ottimismo?
 "Il sorgere di esperienze musicali sempre più complesse e distanti dalla tradizione dei vari linguaggi musicali realizzati nel mondo. Diciamo con tèrmini più usuali che il pentagramma ha oggi minore significato d'un tempo".
A quali esperienze si riferisce?
All'impiego del rumore. Infatti il problema agitato nel presente è quello della mùsica del rumore, che non ha nulla da spartire con gli ingenui tentativi di Pratella e dei Futuristi nel primo ventennio del Novecento. Noi si vive nei rumori: non è possìbile assùmere di fronte ad essi un atteggiamento radicalmente negativo. Dobbiamo per contro trasformare il rumore per elevarlo a dignità d'arte. La mùsica elettrònica, concreta, aleatoria, i nastri magnètici, stanno lì a dimostrare il progressivo distacco dal pentagramma e nel contempo l'esigenza di realizzare nuove esperienze linguìstiche. Il rumore è del mondo, e del mondo in tutte le sue forme: dalla natura all'industria pesante. Io attribuisco ad esso un valore fondamentale".
Però non Le sembra che la società avverta con prepotenza il bisogno di eliminare il rumore in quanto ingombra ormai la vita dell'uomo?
"Questo accade oggi. Domani avremo la possibilità d'attribuirgli un coefficiente positivo nella nostra esistenza".
Ma la sublimazione del rumore, vale a dire una sua rifondazione nella dimensione estetica, non si traduce nel suono quale è stato inteso sino a ieri? "Certamente. Quando di fronte al rumore cominceremo a provare gioia, è logico che questo rumore ci offrirà la medesima nutritura spirituale del suono".
A giudizio di Spirito il passaggio del rumore da fenomeno passivo ad attivo è d'importanza basilare. Un tempo il rumore apparteneva essenzialmente alla natura: il vento, la tempesta, la pioggia, il mare... E' quindi subentrato un altro tipo di rumore: quello che affianca il quotidiano vìvere, ovvero quello industriale. Dice il filosofo che sarà proprio il rumore che oggi terrorizza ed aliena ad alimentare la sonorità futura. Sottolineo a Spirito che per l'intanto il pubblico rifiuta d'istinto e in maniera dràstica le esperienze dell'Avanguardia, le quali pur si rifanno alla vita presente di cui utilizzano i moltèplici materiali. "Non è vero - ribatte il filosofo - che il pùbblico respinga il rumore. E' vero che ne sono rifiutate alcune manifestazioni ed accettate altre. Nell'Italia meridionale, ad esempio, i rumori prèndono un segno positivo: il napoletano vive di rumore. In Cina i fuochi d'artificio sono rumore: rumore in grandissimo stile. In alcuni Paesi il "rumore" del linguaggio parlato emana un fascino peculiare. Quante volte in un salotto abbiamo osservato la felicità prodotta da una conversazione "rumorosa"? La gente non rifiuta in toto il rumore. E soprattutto non lo rifiuta il bambino, cioè quella umanità avvezza non a odiare ma ad amare. Il bambino ama il rumore, anzi, lo preferisce al suono".
Ugo Spirito pone in relazione il rumore con la felicità. Però le mùsiche della seconda metà del Novecento possèggono in sé e sprigiònano una sorta di trauma, di nevrosi. Lo stesso compositore impiega sovente il rumore quale denunzia di una civiltà lacerata, andata depauperàndosi dei più profondi postulati umanìstici.
Contesta il filosofo: "E' il limite da oltrepassare... Al proposito mi consenta di raccontarLe un anèddoto. Amedeo Maiuri, il cèlebre archeòlogo degli scavi di Pompei, abitava a Napoli, nella zona di Toledo, ossia nel centro più caòtico della città. La mattina, la cameriera era sòlita aprire le finestre per far le pulizìe. E dalle finestre entrava in casa il rumore assordante delle strade e dei vìcoli. Esasperato, Maiuri una mattina chiamò la donna: "Per favore, chiudete le finestre che non ne posso più. 'Sto rumore mi fa uscire pazzo!" E la cameriera partenopea ridendo di cuore: "Ma lassàtelo trasì, 'sto bello rumore, lassàtelo trasì...". Ora, quando si parla di nevrosi, di trauma, si accentua un elemento negativo appartenente ad un'educazione convenzionale, pìccolo-borghese, del concetto di rumore, da superare perlappunto mediante una nuova estètica. Non ha senso elùdere o respìngere una parte ormai costitutiva della realtà odierna".
Fissare un rapporto tra nevrosi e rumore significa per Spirito rifarsi al processo di trasformazione della società. Il rumore rientrerebbe in una tra le tante manifestazioni di un'imponente conquista tecnològica, a seguito dello sviluppo dell'industrialismo. Qual è stata questa conquista tecnologica? La velocità. Fino al secolo diciannovèsimo la velocità màssima conosciuta era quella degli animali, degli uccelli e dei cavalli. Ora abbiamo conquistato quella dei mìssili. E ce n'è una ancora superiore: la comunicazione dei mass-media che ci consente di guardare ed ascoltare ciò che accade agli antìpodi: la velocità ha eliminato le distanze. Tuttavia l'organismo umano non è ancora avvezzo a sìmili velocità e ne patisce i contraccolpi. Ecco la nevrosi, segno distintivo delle nuove generazioni, elemento precipuo dell'uomo che non riesce ad adattarsi alla velocità. Si è tempestati dalla radio e dalla televisione da mattina a sera e non si può non ascoltare e vedere ciò che è imposto. La nevrosi colpisce l'individuo sbalzato d'improvviso dalla velocità del messaggio recato a mano a quella della comunicazione fulminea agli antìpodi.
Domando al mio interlocutore se il giudizio che ha per oggetto la mùsica del rumore possa assumere il medesimo valore del giudizio rivolto alla musica tradizionale. "Quello del domani sarà il rumore a cui saranno state educate le prossime generazioni. In esso udranno armonìe che noi non sappiamo ancora distìnguere: armonìe da valutare al pari del suono ".
Osservo che, in ogni caso, la melodia che io canto è un "segnale" poetico dello spìrito; il rumore della società contemporanea è un prodotto artificiale di mera fisicità. Riponde: "La genetica ci insegna che anche le espressioni della poesìa sublime altro non sono che fenòmeni chimici: come tali sono analizzati i Sonetti di Petrarca e le Sinfonie di Brahms, e alla stessa guisa è dato rintracciare nel cervello umano la reazione chìmico-fìsica provocata dall'ascolto di quei versi e di quella musica. Tra anima e corpo l'identità è perfetta".


 Se così è, crolla ogni fondamento per un'estètica metafisica: crollo che Spirito addebita ai corifei della psicanàlisi freudiana, rivelatasi infondata. "Freud non possedette la necessaria preparazione filosòfica per intuire che cosa fosse l'inconscio. In vero, tutta la realtà è inconscia, cioè còsmica: non è né umana né individuale. Ed essendo cosmica, tutto il mondo è armonìa, compreso il rumore, espressione dell'universo".
Se tutto è armonìa, il concetto di Bello non naufraga forse nell'indistinto, ovvero non perde di significato?

 "Il valore di un concetto è nella determinazione dell'universo in una peculiare espressione. Un pacchetto di sigarette è espressione dell'universalità, prodotto del cosmo. In esso trovo l'universo perché l'universo ha concorso alla sua esistenza. Non v'ha frammento della realtà che, per èssere, non abbia bisogno del concorso d'ogni fattore del mondo. Se toglièssimo al pacchetto di sigarette la realtà del mondo, il pacchetto non esisterebbe più".
Dunque anche "Parsifal" è prodotto còsmico. Il capolavoro wagneriano è armonìa universale allo stesso modo del pacchetto di sigarette? Siamo immersi nell'assoluto?

  "Al contrario. Viviamo quotidianamente non di unità ma di frammenti. Dal mattino alla sera trascorriamo da un'esperienza all'altra. Ci si mette a tavola e si mangia un piatto di spaghetti: in quel momento gli spaghetti rappresentano l'assoluto. Poi si fuma una sigaretta, e questa diventa l'assoluto. Poi si ascolta una pàgina di Bach e il massimo compositore tedesco assurge all'assoluto... Non ci è però concesso di saldare la frammentarietà delle esperienze, e quindi non ci è possibile un discorso unitario...Se io fossi in grado d'abbracciare la totalità, sarei in possesso di Dio. Il religioso lo possiede, o quanto meno crede di possederlo. Io invece Dio lo vado cercando, e intanto vivo di frammenti. Di conseguenza non sono in grado neppure di definire l'assolutezza del Bello sicché i miei giudizi, calati nell'empirìa, rivestono un carattere del tutto relativo".

Una dùplice crisi investe il mondo moderno, a giudizio del pensatore aretino: una filosòfica ed una scientìfica. La crisi di segno filosòfico è stata originata dal passaggio dal dogmatismo al criticismo; dall'Illuminismo e da Kant in poi siamo stati paralizzati dal dubbio: a fronte d'ogni affermazione siamo rimasti titubanti. La filosofia, potere sintètico par excellence, ha fallito. La scienza, dal canto suo, ha sostituito il particolare all'universale, e si è fatta specializzazione. "Dopo aver studiato tutta la vita il problema del rapporto tra ànima e corpo, sono pervenuto alla conclusione che non ho possibilità alcuna di conoscere me stesso".
La coscienza dei propri limiti, la consapevolezza del dubbio, non è possesso indiretto dall'assoluto?

 "Il bisogno identificato col possesso si chiama illusione. La coscienza dell'illusione ingenera il dubbio".
Ciò non ostante dopo aver ascoltato Beethoven, o letto Goethe, o guardato Raffaello, Lei non fòrmula un dubbio ma un giudizio positivo.

 "Nel momento immediato d'ogni esperienza vivo l'esperienza singola come totalità, e quindi fòrmulo un giudizio. Ma sùbito dopo mi sorge il dubbio: sarò nel vero? Oggi Goethe mi piace, ma domani chissà... Prendiamo Dante: oggi piace a tutti, ma nel Settecento a molti studiosi e letterati non piaceva punto, e fra un secolo o due?...".
Su questa strada diviene impossibile attribuire una ragione ed un significato anche alla Storia. 

"E' ovvio. La Storia, dominio della realtà, è illusione perché presuppone in chi la fa potere di sintesi. L'uomo invece non può far altro che crònaca".
Il dubbio radicale di Spirito dovrebbe almeno comportare il màssimo rispetto per i convincimenti e le opinioni altrui...

 "Il massimo rispetto per le altrui opinioni è una delle tante affermazioni quotidiane, poi intramezzata da altre che contraddìcono quella del rispetto delle opinioni altrui. Nel corso di una giornata posso dare approvazione e disapprovazione insieme per uno stesso argomento...".
D'altronde se Ugo Spirito avesse potuto conclùdere in modo decisivo intorno ad un qualsivoglia argomento, fosse pure marginale o banale, avrebbe trovato un assoluto. Cioè Dio. Al contrario egli ha trovato solo contraddizioni, cioè il Nulla.

(1) Ragazzo non meno ignorante che sprovveduto, volli affrontare come primo esame del Corso di Laurea in Estetica musicale l'esame di "Filosofìa teorètica", di cui aveva la cattedra Spirito. Il quale mi fece gentilmente accomodare nel suo studio, m'invitò a sedermi sulla sedia di fronte a lui ed a presentargli il libretto. Sul quale lesse che non avevo ancora sostenuto alcun esame. Si tolse gli occhiali, poggiò il libretto sul tavolo, mi osservò attentamente e dopo un tempo indeterminàbile mi domandò con tono di verace incredulità: "Ma Lei vuole sostenere un esame come questo essendo a digiuno d'una minima esperienza di base a carattere filosofico? Vorrei prendermi l'ardire di consigliarLe altri esami, per così dire propedèutici, prima d'affrontare questo. Posso assicurarLe che poi saremo più soddisfatti entrambi". E mi riconsegnò il libretto con un lusinghiero sorriso paterno ma in una maniera che equivaleva ad un congedo immediato e incontrovertìbile... Preparai in fretta e furia con un mio amico un esame secondario di filosofìa e dopo circa un mese mi ripresentai a Spirito. Non mi riconobbe, o meglio, non volle riconòscermi. Né volle aprire il mio libretto. Affàbile e rigoroso mi tenne sotto torchio per oltre mezz'ora. Alla fine aprì il libretto, vi scarabocchiò sopra qualcosa e me lo riconsegnò chiuso. Ringraziai ed uscii stremato dalla stanza. Con il cuore in gola, nel corridoio aprii subito il libretto. Vidi che c'era scritto "Trenta con lode". Incominciai a saltare dalla gioia come un invasato e pensai tra me: "Ehi! vecchio barbuto, scommetto che hai dato questo voto non alla mia preparazione ma alla tenacia della mia sfacciatàggine. Bravo! è così che deve fare un cattedràtico paraculo come Te! Sarai il mio maestro, insieme a Voltaire".

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