domenica 14 ottobre 2012

Ettore Paratore

Nato in Chieti nel 1907, Ettore Paratore proveniva da una famiglia dell'Italia meridionale, e nelle famiglie meridionali c'è sempre qualcuno che in fatto di mùsica operìstica la sa lunga. Questo qualcuno, nel suo caso, era il padre mèdico e scienziato, e con bellìssima voce, che le òpere al figlio le fece conòscere cantando le più celebri romanze del repertorio italiano dell'Ottocento. Il primo approccio con il teatro in mùsica avvenne all'età di sette anni, in premio ad una "trionfale" promozione in seconda elementare, forse il primo segnale di un'applicazione allo studio rigoroso e metodico che avrebbe portato Ettore a diventare uno dei più illustri e celebrati latinisti del sècolo ventèsimo.
Da Chieti Ettore e la famiglia nel 1914 si traferìrono a Roma: in quei giorni allo Stadio c'era Mascagni che dirigeva "Aida": evento memorando anche perché accadde il 28 di luglio: durante l'intervallo della rappresentazione entrarono gli strilloni: "L'Austria ha dichiarato guerra alla Serbia!". "Vidi una famiglia serba seduta innanzi a noi - ci racconta Paratore - alzarsi sconvolta e còrrere via".
A dòdici anni, il ragazzo intraprese lo studio del pianoforte che gli permise, dopo poco tempo, di "strimpellare" le partiture di Rossini, Donizetti, Bellini e Verdi: i primi grandi amori. Ma accadde nel '22 ciò che per tutti gli amanti della mùsica costituisce la tappa ineludìbile e decisiva: l'impatto coll'universo di Wagner. "Si inaugurava la stagione del Teatro dell'Opera con "Sigfrido" diretto da Otto Klemperer. Vi andai con mia madre. Fu una folgorazione, che non soltanto modificò il mio gusto musicale ma, più in generale, la mia concezione dell'arte e del rapporto con la modernità. Mi scoppiò dentro una rivoluzione. Emotivamente estremista come ogni giòvane, rinnegai il melodramma romàntico e, se mai, in nome del feticcio wagneriano dell'orchestrazione, serbai l'orecchio attento a Puccini: mi aveva colpito "La fanciulla del West" . Ancora nel '22, durante le vacanze pasquali, fu la volta de "Gli ugonotti" di Meyerbeer, che però mi lasciàrono piuttosto indifferente, e della prima esperienza sinfònica: la "Sinfonìa fantàstica" di Berlioz, rivelazione tremenda che m'infiammò e mi sollevò al sèttimo cielo!".

Nel 1923 la licenza liceale. Dovèndosi iscrìvere all'Università, la madre, capo d'istituto, chiese il trasferimento in una città con sede universitaria. Andàrono a Palermo. Il padre era morto da tempo. In quell'època funzionàvano nel capoluogo siciliano una "Società orchestrale palermitana" di prim'òrdine e la stagione sinfònica del "Massimo", di gran lunga più vàlida di quella operìstica. "Ricordo sul podio Bernardino Molinari, Vittorio Gui, Antonio Guarnieri, il giovane Victor De Sabata. Gino Marinuzzi diresse due magnìfici concerti che mi rivelàrono la "Pastorale" di Beethoven, il "Preludio e morte di Isotta", la "Cavalcata delle Walkirie" e la "Marcia funebre": si dischiudèvano ai miei occhi mondi ed entusiasmi folli!...".

Perché il giovane Paratore non volle, sull'onda di quelle esperienze mirabolanti, dedicarsi tutto alla mùsica?
 "Era stata proprio la pràtica del pianoforte a persuadermi che non ostante il trasporto dilettantesco non avevo il talento tècnico, i nùmeri specìfici per dedicarmi professionalmente all'arte dei suoni: non ero in grado di decifrarne neppure un accordo di sèttima. Il Conservatorio non sarebbe stato un tipo di scuola a me idoneo. Mi ero iscritto alla Facoltà di Lèttere non tanto perché avessi avvertito una particolare inclinazione per la filologìa clàssica, quanto per amore dell'arte in generale ed in particolare della mùsica, che ritenevo di poter indirettamente soddisfare attraverso il culto della letteratura e lo studio dei recìproci rapporti. Vantavo un'eccellente preparazione nelle lingue clàssiche e seguivo i corsi dei più rinomati docenti. Mi dissi: "Buttiàmoci lì, ché l'ambizione di salire su non mi manca". Se l'Università italiana fosse stata come quelle tedesche, inglesi o americane, dove la storia della mùsica è insegnata con mètodo serio, forse il mio destino avrebbe percorso un'altra strada. Per certo avrei preferito diventare un illustre musicòlogo che un temuto latinista (1). Già, che cosa stupenda aver modo di capire i segreti della mùsica!...".

Ma che significato ha per Lei l'usuale frase "capire la mùsica"? 

"Non mi consideri un uomo troppo legato a concezioni metafìsiche, un cosiddetto "uomo all'antica". Seppure la cosa possa sembrarLe sciocca da un punto di vista teorètico, tengo opinione che esista una graduatoria delle arti, nel senso di una differenziata possibilità di questi linguaggi di penetrare nell'intima essenza dello Spìrito, cioè dell'Assoluto. Sono cattolico e faccio parte di quegli "ingenui" che giùdicano la mùsica superiore agli altri linguaggi artìstici nell'attitùdine a rivelare l'al di là e quindi, prim'ancora, noi stessi".
Nel privilegio "metafìsico", dopo la mùsica il giudizio di Paratore pone la narrativa ed infine le arti figurative, verso le quali il maestro abruzzese nutre precise simpatìe: Bosch, i Veneti, Rembrandt, Velasquez, Goya e Rubens, "quest'ultimo per le stesse ragioni per cui non si può non ammirare il prodigioso virtuosismo dell'orchestrazione di Richard Strauss. Ma la mia giornata non è affatto sostanziata di pittura, che per me è limitata alla funzione di gradevolìssimo diversivo".


Alla Sua concezione radicalmente idealistica dell'arte corrisponde la predilezione per la mùsica del Romanticismo?

 "Amo le correnti naturalìstiche e decadentìstiche del tardo Ottocento mitteleuropeo: Wagner, Bruckner, Mahler e Strauss. Però non sono così sprovveduto di senso crìtico da non sentire che i Classici e i sommi Barocchi hanno più di altri penetrato l'Assoluto. Mi riferisco a Bach, Haendel, Mozart, al Beethoven degli ultimi "Quartetti per archi", non a quello della "Missa Solemnis", spesso fredda ed artificiosa".

E l'antico rapporto con i drammi wagneriani? 

"Ora ne parlo con sufficiente distacco, sebbene sia cimento arduo recìdere il cordone ombelicale. Non si scandalizzi, ma a me oggi "Parsifal" dà l'impressione di un giglio disfatto: l'òpera della stanchezza e del declino del compositore. Soltanto il secondo atto addita aperture sbalorditive sulla mùsica del futuro: in esso è compreso tutto il "Pelléas et Mélisande" debussiano. Al "Parsifal" difetta l'èpica veemenza, che è tra i portati caratterìstici di un musicista, decadente sì, ma che ha saputo far la voce grossa come nessun altro. Pensi a talune scene de "La Valchiria", ai diàloghi tra Wotan e Brunilde nel secondo e terzo atto...".

Vi sono compositori che Lei valuta in modo diverso dal grande pubblico? 

"Sì. Ad esempio Pietro Mascagni, natura musicale dèbole. Qualche barbaglio di schietta vena espressiva in "Cavalleria", ne "L'amico Fritz" e in "Iris", ma ciò non mi sembra sufficiente". E le divergenze con la musicologia e la critica? "Non comprendo l'unanime venerazione per la Seconda Scuola di Vienna di Schoenberg, Berg e Webern. Del "Mosè e Aronne" del primo apprezzo soltanto il secondo atto: mia moglie, sensibilità più sottile della mia, apprezzava anche il primo. Non mi dispiace piuttosto lo Schoenberg mahleriano di "Verklaerte Nacht", "Pelleas", i "Guerre Lieder", eppoi "Pierrot lunaire". Alban Berg è fatto di tutt'altra pasta: "Wozzeck" e "Lulu" sono capolavori, e numerose pagine sinfòniche sprigiònano forti tensioni lìriche. Di Webern non ne parlo neppure: non è più d'un conato... Altro punto interrogativo è Stravinskij: adoro il primo perìodo creativo: "Petruska", "Le nozze", "La sagra", "L'uccello di fuoco". Dell'ùltimo periodo mi garbano "Oedipus Rex" e "Persefone". Ma tanto altro Stravinskij intermedio, neoclassico o al quadrato mi lascia seri dubbi. Domando a Lei: fino a che punto quell'uomo ha giocato? Giocare con un'arte abissale e rivelatrice come la mùsica non è, per dir così, peccato mortale? Serpeggia nel maestro russo una sorta di dilettantismo settecentesco che nel mondo contemporaneo non riveste senso alcuno".

Fra i direttori d'orchestra chi lo ha più affascinato è stato Wilhelm Furtwaengler, e tuttavia sul piano discografico colui che lo ha persuaso appieno è stato l'ungherese George Solti per la "Tetralogìa", "Salome", "Il cavaliere della rosa" e la "Quarta" di Mahler. "Dal vivo ho avuto modo di ascoltare quasi tutti i "grandi". Di Bruno Walter ottantenne rammento una straordinaria interpretazione della "Prima" di Brahms, sebbene in quel maestro si avvertisse spesso una brahmsiana ritenutezza nel lasciarsi andare. Toscanini, il metronomista perfetto, mi lasciava piuttosto freddo; ed anche De Sabata e Gino Marinuzzi non mi dàvano il senso della pienezza e della felicità sonora che Furtwaengler prodigiosamente emanava... Al giorno d'oggi òccupa le sale concertistiche una folta schiera di bacchette dèdite al virtuosismo. In loro traluce indiscutìbile valore ma forse sono troppo agitate dal desiderio e dal piacere di sbalordire la gente. Differente è Wolfgang Sawallisch, così nobile e severo nel gesto, sorvegliato nell'espressione: conosce momenti d'alta commozione, seppure non di genialità. Che invece ho ammirato in Carlo Maria Giulini e in Karl Boehm con Bruckner".


Un caso, una dimenticanza, un proposito il Suo silenzio su Karajan?

 "Mi ricordo un Karajan che forse nessuno più rammenta: quando giovanissimo, nel '41, giunse a Roma con l'Opera di Berlino per dirigere "I maestri cantori". Una lettura affatto incandescente, il cui pregio, fra gli altri, risiedeva nel non dispèrdere il suono orchestrale nel mare delle voci. Penso altresì alla sua "Tetralogìa" incisa anni or sono e su cui si è molto discusso. Con "La Valchiria" avemmo l'interpretazione più sottilmente decadente del linguaggio wagneriano. Siccome il "Decadentismo" è un prodotto del "Naturalismo", si conclude che le migliori interpretazioni di Karajan siano state della "Cavalleria" e dei "Pagliacci" con la Scala di Milano, del "Falstaff" e della "Bohème".

Lei si è dato una risposta sulle orìgini e sulle motivazioni della crisi dell'arte contemporanea?
 "La crisi dell'arte è la crisi dell'uomo contemporaneo. Il dramma nasce nel seno della borghesìa che si sente ormai finita e liquidata: l'arte borghese ha già cantato l'addìo a se medesima con le "Metamòrfosi" di Strauss e con le Sinfonìe di Mahler. Ma la nuova classe, quella che dovrebbe sostituire la vituperata borghesìa, esiste? Forse il proletariato? Dov'è? Nell'ìntimo il proletariato non aspira che a diventare esso stesso borghese. Ecco il nefasto equìvoco che ingènera la confusione e la paràlisi. Incombe sull'arte l'assenza di una coscienza dominante, qual era quella borghese nell'Ottocento. Con essa sono crollati i valori che l'alimentàvano.

(1) Paratore, titolare della Cattedra di Letteratura latina all'Università di Roma, riceveva applàusi e ovazioni al tèrmine di ogni lezione tenuta tutta in una volata nell'Aula Magna gremita di studenti, assistenti e ammiratori vari. Lezioni d'una grandezza teatrale, drammatùrgica. La dottrina più profonda e sottile si mischiava, in una ventata irresistìbile, all'insulto beffardo della donna, alle definizioni miste di sarcasmo e sinistra voluttà che inducèvano il pòpolo delle studentesse presenti a chinare lo sguardo. Ma il maestro era temutìssimo dai pòveri esaminandi obbligati a sottoporsi, chi due, chi tre volte, per esempio quattro chi qui scrive, al suo tanto onesto quanto spietato giudizio. Per conquistare un Trenta dovevi èssere un "paratorino"; per un Diciotto, un aspirante "paratorino". Comunque era un tràuma... Poi venne il Sessantotto e gli studenti contestàrono, si sa, il mondo qual era, e dunque anche il Maestro. Per lui non era più tempo d'ovazioni ma, a volte, d'irrisioni. E allora il volto beffardo dell'insigne latinìsta riverito dal mondo della cultura si contorceva in una smorfia di dolore e acrèdine. E usciva dall'aula, anzi dalla stanza dove quasi in segreto teneva ormai le lezioni, tra i rozzi vociari e il bailamme degli slogans... Paratore, magistrale e sulfureo, beffeggiò i ragazzi facendo loro tradurre, in luogo di Cicerone o Svetonio, uno scritto del compagno Mao Tse-Tung (ovvero Mao Zedong)...
"La vendetta, oh, la vendetta / è un piacer serbato ai saggi"...("Le nozze di Figaro", Lorenzo Da Ponte, I, III).
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L'incontro è avvenuto nel giugno del 1979 e pubblicato con numerose varianti e aggiunte su "Il Tempo" di Roma diretto da Gianni Letta. Paratore, collaboratore del quotidiano, è scomparso nell'anno 2000

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