domenica 14 ottobre 2012

Il nipote di Niccolò Paganini

Niccolò Paganini ebbe un figlio, Achille, che ebbe un figlio, Andrea, che ebbe un figlio, Niccolò II, che ebbe un figlio, Paolo, che ebbe un figlio, Niccolò III. Il sommo violinista era figura diabòlica, allampanata e dinoccolata, inafferràbile e arcana. Quest'ùltimo nipote no. Uomo sòlido e quadrato, tutto in positivo, emblema di un'operosa borghesìa meneghina. Appena una curata barba nera ad incorniciare il volto in modi trascorsi. Però quello è lo splèndido cognome, e anche il nome, e il sangue.
Incontrai Niccolò III a Milano, alla fine d'ottobre del 1982. L'alloggio non era paganiniano in termini di culto. Lungi da lui il propòsito di rinserrarsi in un reliquario; soltanto qualche stampa alle pareti, copie di celebri riproduzioni, sèrici rìccioli sotto vetro, blasonati bottoni di una giacca andata perduta, un taccuino sul quale il Maestro aveva segnato giornalmente, con certosino scrùpolo, le oculate spese per il parco vitto. E sùbito appresi i cibi cui era affezionato il genio: soprattutto la carne di vitella e il pollame, la pasta, la panna, lo zùcchero, i dolci, (nonostante fin dalla giòvine età i denti fòssero stati dèboli, come quasi tutte le altre parti del corpo, e insidiati dalle carie), e ancora il cotone, il carbone per il riscaldamento a difesa dei febbrili intirizzimenti. Un taccuino che il violinista-mago portava sempre con sé, al fondo di una tasca, da buon genovese pensoso dell'economìa, almeno di quella domèstica.

Si tramanda di un'accentuata avarizia del Suo antico nonno, come un rimpròvero che intacchi l'immàgine del fiammeggiante artista, titolare di difetti non men che sublimi...
"Non è vero che fosse avaro, Nicolino. Mica avarizia la sua, bensì puntualità, precisione di ménage. Teneva in òrdine i conti, giacché fin dall'infanzia gli era stato inculcato dai genitori il rispetto del danaro e spiegata la sua fondamentale importanza. Il danaro, anzi, diverrà per lui un chiodo fisso: lo strumento che consente di conseguire la tranquillità, la serenità e un certo agio. D'altro canto, era molto pròdigo verso gli amici (e amiche), parenti, conoscenti e colleghi che versàssero in ristrettezza, tanto da regalare loro somme spropositate per quei tempi. Ovvio, i concerti che dava se li faceva pagare assai bene, e non mollava la presa".

Quale sensazione Lei prova a portare un cognome così impegnativo?
 "Non creda che sia cosa sèmplice. Il fantasma paganiniano nella mia famiglia pesa manco poco, e talvolta opprime. Ci si sente coinvolti in qualcosa più grande di noi; pare di non èsser degni di tanto nome. E' un freno presso che totale... Evviva una dolce mediocrità che sappia sposarsi ai vantaggi dell'anonimato! E' bello vivere all'ombra di se stessi: meno bello all'ombra di geni, sia pur domestici".

Di generazione in generazione vi siete tramandati le cose dette in famiglia dal vostro genio?
 "Mio padre mi ha sempre parlato di lui; io non ne discorro spesso con mio figlio: non riesco più a evocare e definire quell'alone màgico e sacrale che avvolgeva la mia infanzia e l'adolescenza. La tradizione degli studi musicali in famiglia, il pianoforte, il contrappunto a me sono stati imposti con cadenza trisettimanale, ma non ho mai voluto cèdere ad essi. Amo il jazz, mio figlio il pop. La discendenza s'allontana sempre più dall'"incipit" geniale. Rimane la bandiera. La porto io, spero nel migliore dei modi. La porterà in futuro mio figlio secondo coscienza, che mi studio, con mano leggera, di plasmare e indirizzare".

Quanti Paganini tra voi hanno studiato musica?
 "Quelli prossimi a Niccolò I quasi tutti, a livello d'esecuzione ma non di composizione, finché non giunse Andrea, mio bisnonno, che decisamente abbandonò il linguaggio dei suoni per abbracciare la letteratura, o meglio, la traduzione letteraria: parlava cinque lingue, compreso l'aramaico. Mio nonno, Niccolò II , ricuperò il culto della mùsica, ma di professione fece il tècnico meccànico (tipo ascensori, gru idràuliche...) e trasferì la famiglia da Genova, città natale di Niccolò I, a Milano. Le sue due figlie, Andreina violinista e Pinetta pianista, intrapresero la carriera concertìstica (oltre a dare a me infruttuose lezioni), ma quando intorno agli anni Venti si dischiùsero loro le porte di tournées in paesi lontani il padre all'antica pose bruscamente fine al miraggio. Una carriera di tre stagioni appena. Tuttavia la mùsica nella nostra casa è stata portata anche da eccezionali violinisti come David Oistrach, Yehudi Menuhin, Salvatore Accardo, Henryk Szering....".
Li spingeva forse il bisogno di respirare l'aria di famiglia del loro sommo Maestro?
"Desideràvano indagare ciò che sta dietro la pàgina paganiniana attraverso i ricordi viventi; oppure ascoltare dalle zie i discorsi tramandati in casa, osservare gli oggetti che gli appartènnero, scrutarne i documenti supèrstiti...".

Ma Lei come vede il Paganini che ha fatto "étonner" il mondo intero?
 "Lo vedo magnifica star, affatto profètica per quel tempo, e attuale ora. Gli altri musicisti, àbili artigiani, s'aggiràvano per corti principesche e nòbili casate, apprezzati da pochi, ignorati dalla massa. Il mio formidàbile nonno fu invece come una metèora: squarciò la plumbea monotonìa dell'orizzonte; impose quel suo "effetto Paganini" che mandava in delirio le folle: uomo lìbero, dalla parvenza demonìaca, che sconvolgeva e capovolgeva gli adusati clichés del musicista appartato e bigio. Ma gli anni trascòrsero pure per lui. Con una salute sempre più malferma, e dopo una carriera tanto sfolgorante quanto stressante, dopo aver percorso l'Europa a miètere trionfi inauditi, stanco e esausto, cominciò a macinare cose strane, amicizie ambigue, intrallazzi a suo danno, disavventure e calunnie... Fu allora che, sceso dal piedistallo, Paganini si mostrò meno "utòpico" e più umano".

E la febbrile vita erotico-gaudente del Suo avo Lei l'approva?
"Direi proprio di sì. Il suo trasporto artìstico si convertiva di continuo in trasporto e foga amanteschi. Non godeva di una famiglia, né di una compagna stàbile, perché l'esistenza che menava non glielo consentiva. A lui non si offriva la metòdica coltivazione di serra, ma il fugace possesso di fiori campestri, odorosi ma colti en passant".

Un'accusa che si è soliti rivolgere a Paganini: si disinteressò dei problemi sociali dell'època, delle nuove idealità polìtiche e nazionali che fermentàvano sotto la cappa di piombo della Restaurazione nella prima metà dell'Ottocento...
 "Non è una colpa, ma un mèrito, aver scansato le polèmiche. Si è negato a le beghe dei personaggi potenti - loro erano la polìtica - benché più volte sollecitato. Quanto agli ideali nazionali erano ancora in embrione, e dibattuti da una ristrettìssima minoranza d'intellettuali. A Paganini di etichette ne sono state affibbiate tante, troppe: con lui si è oltrepassato il segno sino a proiettarlo e deformarlo in pose grottesche e irreali. Era invece un uomo e un artista calato nella dimensione della concretezza, ove combatteva come un leone per imporre la propria invidiata originalità".

Lei prova affetto per il suo vecchio nonno, oppure questa sua è stata una difesa per così dire di prosapia?
"Le confesso che io mi sento addosso soltanto il fattore mùsica, e attraverso esso persiste un legame con Niccolò I. La persona fìsica, l'uomo, per me non è più riconoscìbile. Sarebbe troppo audace asserire da parte mia un affetto concreto. Quando il passato si è irrimediabilmente allontanato il sentimento dei pòsteri per gli illustri antenati si muta in una sorta di vasto e incrèdulo stupore. Tutto qui".






Nessun commento:

Posta un commento