domenica 21 ottobre 2012

Giorgio Vigolo

Nato nel 1894, il poeta romano Giorgio Vigolo la vita la cedette agli Dei dopo lunga pezza, a Roma, nel 1983. C'incontrammo nel giugno del 1979, a casa sua nel quartiere Prati: un appartamentino al sèttimo piano di un edificio umbertino, così in alto da èssere più vicini alle nùvole che alle trafficate e silenti vie sottostanti. Vi aveva vissuto fino a poco tempo prima con il fratello, ora era rimasta  un'affezionata e anziana governante. Discorremmo a lungo, un pomeriggio, nello studio-biblioteca dove le file di libri ordinate e fitte, e le vecchie rilegature in pelle, preziose e un po' consunte che rivestìvano i volumi come una parete, dàvano un calore antico alla stanza. Quasi da ogni libro spuntava un mazzetto dei strisce di carta, segnali che rammentàvano le notazioni, le predilezioni, le commozioni della lettura. Sul tàvolo, l'una sull'altra, le cartelle che raccoglièvano i versi non ancora o non più pubblicati: qualche poesìa scritta di getto, altre che riportàvano sulle parole battute a màcchina i ripensamenti a matita. Mi lesse qualcosa, ma tornando alla prima versione. "Più procedo negli anni - considerò fermando gli occhi su una parola - più torno stupito alle cose che composi ragazzo, e ne sono felice".
Che Vigolo sia stato tra i crìtici e musicòlogi più acuti di questo Paese sarebbe sufficiente a dimostrarlo "Mille e una sera all'opera e al concerto", il libro che ha riunito le recensioni da lui compilate per quotidiani e periòdici dal 1945 al 1966. Una "milizia" appassionata e intelligente mai caduta nella routine dell'affrettato rendiconto cronachìstico o nell'esasperato tecnicismo degli addetti ai lavori, ma sempre valorizzata dall'apporto di una vastìssima cultura stòrico-letteraria che gli ha permesso di rilevare i sottili e moltèplici legami fra le diverse manifestazioni dell'espressione artìstica.

Mi puoi dire del rapporto fra il fare del poeta e quello del crìtico musicale?
"La crìtica può ambire talvolta alla poesìa. Credo d'avere scritto alcune tra le mie pàgine più soddisfacenti proprio in veste di recensore musicale: nei momenti migliori, quando avverti un'indefinibile consanguineità celeste con la storia dei suoni che ti giunge nello spìrito"...
 La pagina che Vigolo tiene aperta davanti a sé riguarda l' "Arte della fuga" di Bach, òpera suprema del raziocinio che in lui sùscita un'emozione straordinaria : "Quella pienezza vivente di commozione risulta tanto più meravigliosa in una costruzione d'assoluta mùsica pura come l' "Arte della fuga" che sembra ricongiùngersi con le forme misteriose di remoti mondi della natura, con il mondo dei cristalli e degli astri. Il fatto è che da codesta purezza e astralità non si sprigiona, come spesso accade in sìmili casi, il gelo matemàtico o il compiacimento estètico dell'art pour l'art, ma l'ìntimo fuoco di un amore che trabocca dalla vita stessa dell'artista".

I tuoi primi rapporti con la musica?
 "Sono nati con le emozioni dell'infanzia. Ascoltavo la bellìssima voce di contralto di mia madre, che se non fosse stata la nipote del Sìndaco di Roma, Pietro Venturi, avrebbe avuto le carte in règola per salire con successo sui palcoscènici. Anche mio padre cantava con discreta voce di tenore. Probabilmente io sono nato da un loro duetto. E, appena possìbile, ho messo le mani sul pianoforte: con la destra strimpellavo i motivetti della "Vèdova allegra", con la sinistra imbastivo un rozzo accompagnamento "albertino". Abitavamo a Lungotèvere Mellini, numero civico 34. Dalle finestre scorgevo distintamente il Piazzale del Pincio dove, nel giorno dello Statuto, s'accendeva una miràbile giràndola di fuochi d'artificio. Ma la festa più bella per me era quando su quel Piazzale si faceva mùsica, ed io, al segnale delle prime note, spiccavo una corsa da casa per raggiungere la celebre Banda Comunale di Roma diretta da Alessandro Vessella, lì dal 1905 al 1921 ad allietare le domèniche della paciosa borghesìa capitolina".

Ho più volte letto che quel direttore di banda, d'orìgini casertane, da Thomas Mann chiamato con ostinazione "Vessello" divenne quasi una figura leggendaria. Che ricordi e giudizi ne serbi?
 "Possedeva un màgico flùido pedagògico: trascrivendo per gli strumenti a fiato le parti degli archi imprimeva alla partitura la plasticità del bassorilievo rispetto al quadro dipinto. Spetta a lui il mèrito di aver diffuso per primo la mùsica di Wagner nella nostra città. Sento ancora l'èstasi a cui fui sollevato dall'Ingresso degli Dei nel Walhalla, avvenuto all'aria aperta, in mezzo ai bambini che giocàvano, ai cani che scodinzolàvano fra la folla, ai soldati che tenèvano sottobraccio la morosa - ed erano forse un po' indifferenti alla mùsica ed impazienti - in mezzo ai vecchi che, stupiti dalle astruserìe metafìsiche dell'Anello nibelùngico, invocàvano patriotticamente il sacro e sòlido nome di Verdi".

Fu nel 1909 che Vigolo ascoltò il primo concerto all'Augustèo, allora chiamato "Anfiteatro Comunale - Anfiteatro Corea". Loggione, centesimi 25. "Ascoltai nientemeno che la "Nona" di Beethoven diretta da Willem Joseph Mengelberg, il leggendario maestro nederlandese a capo dell'Orchestra del Concertgebouw di Amsterdam dal 1885 al 1941. Avevo 15 anni e non capii la eccezionale complessità  della struttura beethoveniana; tuttavìa da quel momento la mùsica venne ad occupare un largo spazio nella vita del mio sentimento".

Una passione così forte non ha tentato di prevalere in te sull'attività di poeta?
 "Non ci è  concesso di scègliere ciò che si è. Io sono soprattutto un poeta. A dòdici anni già scrivevo versi con un senso dell'endecasìllabo e della tradizione rìtmica assai sviluppato. Al contrario, non sono mai stato capace di "inventare" una melodìa e di disegnarla sul pentagramma. Consìdero la mùsica come una delizia, dolcìssima delizia, cui m'affido ma a cui non so rispòndere con mia originalità. Essa ha costituito per me un fondamentale elemento d'integrazione culturale".

Non hai mai provato il desiderio di studiare il linguaggio dei suoni in modo sistemàtico?
"Sapevo lèggere molto bene a prima vista. Sicché, con la malleverìa di mio padre, presi a frequentare la Biblioteca dell'Accademia di Santa Cecilia. Ebbi in prèstito i clàssici della letteratura pianìstica e li divorai avidamente: Bach, Mozart, Schumann, Chopin... E lessi avidamente la Passione secondo Matteo di Bach; imparai a memoria i Quartetti per archi di Beethoven nella trascrizione per tastiera: un fatto abbastanza insòlito negli anni in cui il gusto musicale italiano ruotava intorno a Puccini e Mascagni. Ho provato orgoglio nella successiva attività di crìtico musicale quando, di fronte a colleghi annoiati dall'ascolto dei Quartetti, io indicavo loro la necessità dei legami che innàlzano a suprema unità di poesìa le quattro voci dialoganti".

La "scoperta" di Vigolo critico si dovette alla lungimiranza di Giacomo Debenedetti, che nel '45 insieme ad Alberto Moravia, Leonida Repaci e Guido Piovene, fondò il giornale L'Epoca. "Un pomeriggio, incontrai Piovene che mi disse: "Ehi! Giorgio, si fa in giro il tuo nome come crìtico musicale del nuovo quotidiano". La cosa mi stupì enormemente perché ero a conoscenza dei numerosi e quotati musicòlogi in fila e in lotta - senza esclusione di colpi -  per ottenere quell'incàrico. Ricordo che De Paoli mi inviò un biglietto maligno: "Pasticciere, fa' il tuo mestiere!". Dopo L'Epoca venne Risorgimento liberale e, appena tre giorni dopo la sua chiusura, Pannunzio e Gorresio mi telefonàrono per invitarmi a Il Mondo, il prestigioso settimanale cui rimasi legato per oltre vent'anni. Devo dirti che fin dai primi pezzi riscossi un successo che mi fece un poco di rabbia. La notorietà avrei preferito averla con la poesìa; invece i versi apparsi su Il Giornale d'Italia scivolàvano via inosservati".

Caro Vigolo, in tanti anni di crìtica militante ti sarai posto la domanda circa il significato sociale e la funzione divulgativa di questa tua attività.
 " Se devo dirti la verità, non ho mai attribuito molta importanza alla cosa. Ho sempre pensato che della crìtica, tutto sommato, se ne potesse fare a meno senza grave danno per il pùbblico. Basta la mùsica". Non crediamo alle sue parole. La penna di Vigolo, oltre a ripercòrrere i capolavori della mùsica d'arte, ha scolpito con tratti esemplari e fascino definitivo figure di sommi intèrpreti del Novecento: da Furtwaengler a Karajan, da Stravinskij a De Sabata e, più in su nel tempo, le mìtiche apparizioni romane del tedesco Arthur Nikisch e di Gustav Mahler...

Al giorno d'oggi è particolarmente rilevante il fenomeno del "divismo", che quasi pare aver sostituito  i valori intrìnseci della mùsica. Sei d'accordo?
 "Certo, è come se nel cuore dell'ascoltatore l'intèrprete avesse soppiantato il compositore. Come se al concerto o all'òpera ci si recasse per ammirare sul podio un Carlos Kleiber o per godersi i virtuosismi canori di un Pavarotti in scena, anziché per ascoltare una Sinfonìa di Brahms o un melodramma di Bellini".
Ma escludi che questo "divismo" esasperato possa per altro verso avviare o facilitare l'approccio dei giòvani al mondo della mùsica d'arte?
 "I miràcoli sono miràcoli. Però ritengo che il destino musicale di un individuo abbia radici diverse e più profonde. Non c'è una via di Damasco, sulla quale ti aspetta il celebrato direttore d'orchestra o il tenore di grido per predisporre la tua vocazione musicale".

Perché il compositore contemporaneo è in crisi?
 "Tutte le fontanelle se so' seccate; povero amore mio more de sete. Dalla Scuola dodecafònica a Stockhausen un tecnicismo ipertrofizzato è subentrato alla fantasìa ed alla vena melòdica. Oggi non si è più capaci di cantare: manca l'abbandono della mùsica al sentimento e del sentimento alla mùsica. Crisi del gusto e inaridimento. E i crìtici da parte loro hanno puntato le armi al cuore. Pochi sono rimasti i compositori che non tèmono di tradurre in pàlpito di suono le loro più segrete vibrazioni. Alcuni se ne stanno in disparte e confìdano in tempi migliori, altri si sono imposti con la forza del talento e dell'urgenza espressiva: penso a Menotti, a Nino Rota, il maggior musicista italiano in attività...".
Vigolo s'interrompe e mi guarda negli occhi per scòrgervi consenso o dissenso. E' arduo ribàttere ad un illustre crìtico: addirittura impossìbile se costui è anche un vero poeta... Gli dico: "Caro Vigolo, se i crìtici la verità la cercano, i poeti come te la crèano".

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