Nella sua casa di Milano, in via Bigli 15, Eugenio Montale è acquattato nella poltrona del salotto, la sigaretta tra le dita, lo sguardo che scruta l'ospite introdotto da Gina Tiossi, la mitica "Gina", fedele ed antica governante toscana che da anni presiede con affettuosa autorità alle cure domèstiche.
All'apparenza stupito e come imbarazzato, Montale mi domanda perché mai sia giunto da Roma - "un viaggio così lungo" - per discòrrere di mùsica con lui: lui che ha "poco o niente da dire sull'argomento". Esito a rispòndergli, non per l'ovvia contestazione che potrei muòvergli, ma perché resto indeciso sul modo di chiamarlo: maestro, professore, senatore, o in altro modo, ben sapendo il fastidio che il poeta ha sempre manifestato nel sentirsi nominare con tìtoli accadèmici ed altisonanti, e la sua predilezione nel definirsi semplicemente "giornalista". "Comunque - mi incoraggia - se Lei ha fatto un viaggio appòsito per incontrarmi e scrìverne, cercheremo di discòrrere, come vuole, di mùsica. Vorrà scusarmi se la memoria e i ricordi che posso offrirLe non saranno più così freschi".
Ho con me un piccolo registratore che poggio sul bracciolo della poltrona, pronto ad accènderlo in caso di necessità. "Devo parlare forte qui dentro? - mi intèrroga quasi intimorito - E se dicessi cose non gradite, provvederà Lei ad abbassare il volume?... Ma no, lasci pure; speriamo che a coloro che intendèssero querelarmi sfùggano il suo scritto e le mie parole". Montale sorride in quegli occhi astratti e baluginanti di ottantasei anni. Poi un lungo silenzio, come numerosi ne seguiranno a contrappunto della conversazione.
Mi ero preparato in antìcipo uno schema d'intervista, ma il mio interlocutore, esperto del mestiere, mi precede e prende le mosse dalle orìgini della sua lunga esperienza musicale. "Sono nato in una famiglia di musicòmani genovesi, di cui nessuno però aveva nozioni di mùsica. Dei cinque fratelli maggiori, uno era fanàtico dell'òpera lìrica, teneva a mente tutto il repertorio melodrammàtico dell'Ottocento italiano; un altro era esperto della vecchia operetta francese e austrìaca. Seguendo l'esempio, e cantando con loro l'estate durante le vacanze scolàstiche, mi sono formato una "cultura" musicale esclusivamente vocale. Tant'è che ascoltare un concerto sinfònico o camerìstico e sùbito sonnecchiare, era per me la medèsima cosa".
La prima autèntica emozione musicale fu per lui "La Sonnambula" di Bellini. Era ancora bambino e suo padre lo condusse ad una matinée domenicale: l'incanto s'interruppe sul più bello, alle cinque e mezzo, perché bisognava rincasare. A quell'ora, o poco più tardi, tutti i giorni dell'anno senza eccezioni, era pronta la cena, secondo la tetràgona disposizione paterna: "Allora i genitori erano figure marmoree". Nel 1915, a vent'anni Eugenio decise di prèndere lezioni di canto. Suo maestro fu Antonio Sivori, anziano barìtono in pensione, che il poeta descriverà più tardi in una miràbile pàgina della "Farfalla di Dinard": "Piccolo, rattrappito sui tasti, veneràbile e insieme ridìcolo, modulava le note con una boccuccia a uovo di piccione che s'apriva a stento tra le gronde dei grandi baffi canuti e le falde tremolanti della nivea barba mosaica. Gorgheggiava come un usignolo centenario e gli occhietti gli brillàvano dietro le lenti spesse".
Sivori era convinto che la voce montaliana fosse più idonea alla tessitura baritonale che a quella originaria di basso. "Sa, feci appena in tempo - osserva con distratta ironìa - a studiare un po' di solfeggio per sei mesi: dopo, grazie a Dio, Sivori morì ed io evitai la scelta tra canto e poesìa, tra mùsica e letteratura".
Ma il Suo maestro non riponeva in Lei grandi speranze?
"Il maestro non conoscendo bene me, il mio nervosismo e il mio amore per la letteratura, si limitava ad apprezzare la voce. Ma la voce è l'ultima qualità che necèssita al mestiere di cantante: ci vuole qualche grammo d'imbecillità, che io ritenevo con molta presunzione di non avere: ritenevo ma forse sbagliavo; ci vuole faccia tosta e savoir-faire; e ci vuole soprattutto l'assoluta mancanza d'altri interessi. Ne ebbi conferma quando incontrai Beniamino Gigli e mi meravigliai della sua tetràgona indifferenza a tutto ciò che non fosse materia canora. Augurai di sbagliarmi sul suo conto tuttavia temetti il contrario".
Faccio notare a Montale che già lessi le sue parole sul fatto che il cantante d'òpera dev'essere un misto di genialità e stupidità.
"E' vero, mi riferivo alla figura del tenore, a cui di norma spèttano ruoli d'esigua o finta rilevanza psicològica. Il barìtono magari indosserà i panni del mascalzone ma è più autèntico e umanamente contraddittorio. Scarpia, ad esempio, è un magnìfico personaggio, forse il migliore di "Tosca", furfante e gentiluomo al contempo. In Italia abbiamo contato molti barìtoni di valore, ma appena si sono ritirati dalle scene sono stati dimenticati, a differenza dei tenori, che nel ricordo hanno visto accresciuto il loro talento".
Il giudizio negativo sui tenori il maestro non lo estende ai soprani?
"No, per carità! Ho avvicinato poche primedonne e non ho mai capito se fosse grazia, civetterìa o concreta intelligenza a rènderle creature amabilìssime. Forse il più grande soprano della mia giovinezza è stata Claudia Muzio: non la conobbi personalmente: non osai mai presentarmi a lei".
Più tardi non si entusiasmò per Maria Callas?
"La Callas usò sempre molti riguardi nei miei confronti. Quando nel 1967 ricevetti dal presidente Saragat la nomina di senatore a vita, fu lei la prima, insieme all'ex regina d'Italia Maria José, ad inviarmi un telegramma di felicitazioni. Era insuperabile in tre o quattro opere drammatiche, ma in altri titoli era affatto deludente. Una volta quello sciagurato e simpatico Victor De Sabata la scelse come Rosina in un "Barbiere di Siviglia" allestito alla Scala. Non fu fischiata, ma quasi. Con lei era sbagliato l'intero cast vocale: Rossi Lemeni interpretava Don Basilio con un fischio al naso, "trovata" assai disdicevole, e Tito Gobbi "calava" in continuazione... Fu il peggior "Barbiere" che avessi mai ascoltato. A mio ùmile parere, il capolavoro rossiniano richiederebbe cantanti d'operetta".
Come sa, è scomparsa di recente un'altra grande voce: Giacomo Lauri Volpi.
"Intorno agli anni 1918-1920 interpretò un "Rigoletto" eccezionale con la Toti Dal Monte. Però due o tre anni dopo fu un disastro. E in quelle disastrose condizioni divenne famoso. Da allora non ne ricavai più una buona impressione"...
Il giudizio di Montale è severo anche su Enrico Caruso?
"L'ho ascoltato soltanto su disco. Quando il tenore rientrò in Italia dagli Stati Uniti, la platea delusa sentenziò che al Metropolitan di New York aveva imparato a cantare "come i tedeschi", cioè con freddezza. Probabilmente quella freddezza era il conseguimento di un maggior equilibrio espressivo, il consapèvole rifiuto delle gigionate alla napoletana che avèvano mandato in delirio il pùbblico nostrano".
E i direttori d'orchestra? Non si è mai infervorato per uno di loro come Furtwaengler, Bruno Walter o Karajan?
"Una sera ascoltai "Aida" all'Opéra di Parigi. Sul podio c'era Georges Pretre, un maestro di cui tutti dicèvano male: a me parve eccellente. Al ritorno in Italia ne parlai con Francesco Siciliani, deus ex machina della Scala. Trascorso qualche tempo vidi Pretre sul podio scalìgero: tenuto per sommo direttore. Ho la vaga sensazione che il pùbblico parigino non sia costituito da intenditori e melòmani ma da turisti che, al compimento del rituale tour, la sera appròdano all'Opéra. D'altronde la maggior parte degli intellettuali francesi considera il melodramma un gènere artìstico inferiore. Un illustre scrittore d'oltr'Alpe si meravigliò fortemente che "una persona intelligente come me
E infatti Pierre Boulez, come Lei sa, si rifiuta di dirìgere Verdi....
Domando a Montale se si rèputa soddisfatto delle traduzioni rìtmiche dei libretti d'òpera che ha realizzato.
Come giudica un accanito melòmane come Lei la mùsica contemporanea e postdodecafonica?
Non salva nessuno tra gli operisti d'oggi?
Con un barlume di nostalgìa Montale risale agli anni tra il 1955 e il 1967, quando svolgeva l'attività di crìtico musicale al "Corriere d'informazione", ossia l'edizione pomeridiana del "Corriere della Sera". Era davvero così pignolo come si narra?
Le piace ancora ascoltare mùsica?
caro enrico, mi dai un tuo recapito? me lo ha chiesto questo pomeriggio Umberto Padroni del quale certamente ti ricorderai. voleva chiamarti.
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