domenica 14 ottobre 2012

Eugenio Montale

Milano, giugno 1978

Nella sua casa di Milano, in via Bigli 15, Eugenio Montale è acquattato nella poltrona del salotto, la sigaretta tra le dita, lo sguardo che scruta l'ospite introdotto da Gina Tiossi, la mitica "Gina", fedele ed antica governante toscana che da anni presiede con affettuosa autorità alle cure domèstiche.
All'apparenza stupito e come imbarazzato, Montale mi domanda perché mai sia giunto da Roma - "un viaggio così lungo" - per discòrrere di mùsica con lui: lui che ha "poco o niente da dire sull'argomento". Esito a rispòndergli, non per l'ovvia contestazione che potrei muòvergli, ma perché resto indeciso sul modo di chiamarlo: maestro, professore, senatore, o in altro modo, ben sapendo il fastidio che il poeta ha sempre manifestato nel sentirsi nominare con tìtoli accadèmici ed altisonanti, e la sua predilezione nel definirsi semplicemente "giornalista". "Comunque - mi incoraggia - se Lei ha fatto un viaggio appòsito per incontrarmi e scrìverne, cercheremo di discòrrere, come vuole, di mùsica. Vorrà scusarmi se la memoria e i ricordi che posso offrirLe non saranno più così freschi".
Ho con me un piccolo registratore che poggio sul bracciolo della poltrona, pronto ad accènderlo in caso di necessità. "Devo parlare forte qui dentro? - mi intèrroga quasi intimorito - E se dicessi cose non gradite, provvederà Lei ad abbassare il volume?... Ma no, lasci pure; speriamo che a coloro che intendèssero querelarmi sfùggano il suo scritto e le mie parole". Montale sorride in quegli occhi astratti e baluginanti di ottantasei anni. Poi un lungo silenzio, come numerosi ne seguiranno a contrappunto della conversazione.

Mi ero preparato in antìcipo uno schema d'intervista, ma il mio interlocutore, esperto del mestiere, mi precede e prende le mosse dalle orìgini della sua lunga esperienza musicale. "Sono nato in una famiglia di musicòmani genovesi, di cui nessuno però aveva nozioni di mùsica. Dei cinque fratelli maggiori, uno era fanàtico dell'òpera lìrica, teneva a mente tutto il repertorio melodrammàtico dell'Ottocento italiano; un altro era esperto della vecchia operetta francese e austrìaca. Seguendo l'esempio, e cantando con loro l'estate durante le vacanze scolàstiche, mi sono formato una "cultura" musicale esclusivamente vocale. Tant'è che ascoltare un concerto sinfònico o camerìstico e sùbito sonnecchiare, era per me la medèsima cosa".

La prima autèntica emozione musicale fu per lui "La Sonnambula" di Bellini. Era ancora bambino e suo padre lo condusse ad una matinée domenicale: l'incanto s'interruppe sul più bello, alle cinque e mezzo, perché bisognava rincasare. A quell'ora, o poco più tardi, tutti i giorni dell'anno senza eccezioni, era pronta la cena, secondo la tetràgona disposizione paterna: "Allora i genitori erano figure marmoree". Nel 1915, a vent'anni Eugenio decise di prèndere lezioni di canto. Suo maestro fu Antonio Sivori, anziano barìtono in pensione, che il poeta descriverà più tardi in una miràbile pàgina della "Farfalla di Dinard": "Piccolo, rattrappito sui tasti, veneràbile e insieme ridìcolo, modulava le note con una boccuccia a uovo di piccione che s'apriva a stento tra le gronde dei grandi baffi canuti e le falde tremolanti della nivea barba mosaica. Gorgheggiava come un usignolo centenario e gli occhietti gli brillàvano dietro le lenti spesse".

Sivori era convinto che la voce montaliana fosse più idonea alla tessitura baritonale che a quella originaria di basso. "Sa, feci appena in tempo - osserva con distratta ironìa - a studiare un po' di solfeggio per sei mesi: dopo, grazie a Dio, Sivori morì ed io evitai la scelta tra canto e poesìa, tra mùsica e letteratura".
Ma il Suo maestro non riponeva in Lei grandi speranze?
 "Il maestro non conoscendo bene me, il mio nervosismo e il mio amore per la letteratura, si limitava ad apprezzare la voce. Ma la voce è l'ultima qualità che necèssita al mestiere di cantante: ci vuole qualche grammo d'imbecillità, che io ritenevo con molta presunzione di non avere: ritenevo ma forse sbagliavo; ci vuole faccia tosta e savoir-faire; e ci vuole soprattutto l'assoluta mancanza d'altri interessi. Ne ebbi conferma quando incontrai Beniamino Gigli e mi meravigliai della sua tetràgona indifferenza a tutto ciò che non fosse materia canora. Augurai di sbagliarmi sul suo conto tuttavia temetti il contrario".

Faccio notare a Montale che già lessi le sue parole sul fatto che il cantante d'òpera dev'essere un misto di genialità e stupidità.
 "E' vero, mi riferivo alla figura del tenore, a cui di norma spèttano ruoli d'esigua o finta rilevanza psicològica. Il barìtono magari indosserà i panni del mascalzone ma è più autèntico e umanamente contraddittorio. Scarpia, ad esempio, è un magnìfico personaggio, forse il migliore di "Tosca", furfante e gentiluomo al contempo. In Italia abbiamo contato molti barìtoni di valore, ma appena si sono ritirati dalle scene sono stati dimenticati, a differenza dei tenori, che nel ricordo hanno visto accresciuto il loro talento".

Il giudizio negativo sui tenori il maestro non lo estende ai soprani?
 "No, per carità! Ho avvicinato poche primedonne e non ho mai capito se fosse grazia, civetterìa o concreta intelligenza a rènderle creature amabilìssime. Forse il più grande soprano della mia giovinezza è stata Claudia Muzio: non la conobbi personalmente: non osai mai presentarmi a lei".
 Più tardi non si entusiasmò per Maria Callas?
 "La Callas usò sempre molti riguardi nei miei confronti. Quando nel 1967 ricevetti dal presidente Saragat la nomina di senatore a vita, fu lei la prima, insieme all'ex regina d'Italia Maria José, ad inviarmi un telegramma di felicitazioni. Era insuperabile in tre o quattro opere drammatiche, ma in altri titoli era affatto deludente. Una volta quello sciagurato e simpatico Victor De Sabata la scelse come Rosina in un "Barbiere di Siviglia" allestito alla Scala. Non fu fischiata, ma quasi. Con lei era sbagliato l'intero cast vocale: Rossi Lemeni interpretava Don Basilio con un fischio al naso, "trovata" assai disdicevole, e Tito Gobbi "calava" in continuazione... Fu il peggior "Barbiere" che avessi mai ascoltato. A mio ùmile parere, il capolavoro rossiniano richiederebbe cantanti d'operetta".

Come sa, è scomparsa di recente un'altra grande voce: Giacomo Lauri Volpi.
 "Intorno agli anni 1918-1920 interpretò un "Rigoletto" eccezionale con la Toti Dal Monte. Però due o tre anni dopo fu un disastro. E in quelle disastrose condizioni divenne famoso. Da allora non ne ricavai più una buona impressione"...

Il giudizio di Montale è severo anche su Enrico Caruso?
 "L'ho ascoltato soltanto su disco. Quando il tenore rientrò in Italia dagli Stati Uniti, la platea delusa sentenziò che al Metropolitan di New York aveva imparato a cantare "come i tedeschi", cioè con freddezza. Probabilmente quella freddezza era il conseguimento di un maggior equilibrio espressivo, il consapèvole rifiuto delle gigionate alla napoletana che avèvano mandato in delirio il pùbblico nostrano".

E i direttori d'orchestra? Non si è mai infervorato per uno di loro come Furtwaengler, Bruno Walter o Karajan?
 "Una sera ascoltai "Aida" all'Opéra di Parigi. Sul podio c'era Georges Pretre, un maestro di cui tutti dicèvano male: a me parve eccellente. Al ritorno in Italia ne parlai con Francesco Siciliani, deus ex machina della Scala. Trascorso qualche tempo vidi Pretre sul podio scalìgero: tenuto per sommo direttore. Ho la vaga sensazione che il pùbblico parigino non sia costituito da intenditori e melòmani ma da turisti che, al compimento del rituale tour, la sera appròdano all'Opéra. D'altronde la maggior parte degli intellettuali francesi considera il melodramma un gènere artìstico inferiore. Un illustre scrittore d'oltr'Alpe si meravigliò fortemente che "una persona intelligente come me - bontà sua - si scomodasse per "Il trovatore", quella buffonata".
E infatti Pierre Boulez, come Lei sa, si rifiuta di dirìgere Verdi....

 "E' pregiudizio abbastanza diffuso in Francia che Verdi sia "macaronì", merce italiana non degna di una raffinata intellighentia. Pregiudizio che sovente si estende su tutta l'arte italiana dell'Ottocento in quanto grondante superficiale spontaneità... Però sulla sponda opposta ci sono gli entusiasti ad oltranza, per i quali ogni prodotto o personaggio artìstico col marchio "Made in Italy" sarebbe meritèvole d'immortalità".

Domando a Montale se si rèputa soddisfatto delle traduzioni rìtmiche dei libretti d'òpera che ha realizzato.

 "Esperienze infàuste, signor mio. Soprattutto quella di "Troilo e Criseide" di William Walton, sebbene il caro Giorgio Vigolo asserì malignetto che quella traduzione era la mia migliore poesìa. Il lavoro fu rappresentato alla Scala ma cadde miseramente, non per colpa mia. Sul podio Victor De Sabata, bravissimo direttore, colto, simpàtico, fascinoso, tutto quel che si vuole, ma in fatto di cantanti, ribadisco, non ci capiva niente. Lo avevo avvicinato: "Maestro, qui c'è una parte molto importante da affidare alla voce in falsetto di un contraltista. Ma alla Scala non lo avete. Che cosa facciamo?" "Ma ti pare, caro Montale? Qui alla Scala abbiamo tutto!" Morale della favola: fu scelto un tenorazzo e l'opera fu fischiata al calare del sipario, tra le risate e il sarcasmo del pubblico; i responsàbili della rappresentazione non èbbero l'ardire di farsi vedere: né il soprintendente Ghiringhelli, né De Sabata. Sotto la neve accompagnai in albergo William Walton e lo salutai di soppiatto: era umiliato come me. L'òpera fu data in sèguito con successo in Inghilterra. Da noi scomparve di scena".

Come giudica un accanito melòmane come Lei la mùsica contemporanea e postdodecafonica?

 "Non nutro simpatìe per ciò che si riduce ad insolùbile enigma o ad alambicco decorativo. Non pochi compositori del nostro tempo sono tanto negati alla mùsica quanto àvidi di prematura immortalità. Luigi Nono in Conservatorio era considerato insufficiente. E' pur vero che il giudizio della scuola troppe volte è clamorosamente fallace, ma non è questo il caso. L'arte dei suoni attraversa un crisi profonda e, suppur le vèngano offerte le dande traballanti di qualche criticuzzo, manca della fondamentale comunione con il grande pùbblico. Chi va ancora ad ascoltare un'opera di Luigi Dallapiccola come l'"Ulisse"? La sua mùsica, tre lunghe ore di cacofonìe, mi fa noiosamente sorrìdere. E dire che questo compositore, sensìbile per natura, sarebbe stato portato a cose dolci e armoniose...".

Non salva nessuno tra gli operisti d'oggi?

 "Certo è che il panorama non m'induce ad eccessivi ottimismi. Ascoltài con piacere "Il console" di Menotti, uno dei suoi primi cimenti, e ne ricavai una piacèvole impressione. Anche la musica di Nino Rota ha favorèvoli risonanze. Lo conobbi bambino, quando passava per un futuro Mozart. La profezia non si è avverata, ma talento ne ha... Del resto non solo la mùsica è in perìcolo, ma tutti i mezzi di espressione artistica. Prendiamo un caso tìpico della narrativa novecentesca: "L'uomo senza qualità" di Robert Musil. Si dice che l'osannatìssimo romanzo della cultura mitteleuropea non sia stato portato a tèrmine a càusa della morte dello scrittore austrìaco avvenuta nel 1942. Lei sa la verità? Musil abbandonò il romanzo anni prima perché non sapeva più che pesci far pigliare agli evanescenti personaggi. E' un romanzo esemplare della crisi dell'uomo contemporaneo, affèrmano taluni crìtici e studiosi. Non è vero. E' il romanzo di Musil ad esser in crisi. E il lettore se n'avvede presto: e però gliene fa un mèrito anziché una colpa".

Con un barlume di nostalgìa Montale risale agli anni tra il 1955 e il 1967, quando svolgeva l'attività di crìtico musicale al "Corriere d'informazione", ossia l'edizione pomeridiana del "Corriere della Sera". Era davvero così pignolo come si narra? 

"Allora i signori crìtici non si prendèvano il lusso di un giorno di tempo per scrìvere la recensione. Si lavorava nell'apprensione. La "première" alla Scala cadeva di domenica ed io, appena calava il sipario, correvo in redazione. Dall'una alle due di notte buttavo giù l'artìcolo che la mattina il pùbblico dello spettàcolo avrebbe potuto già lèggere. Ma la tempestività non riguardava soltanto le manifestazioni musicali. Quando si spense il critico e letterato Giuseppe Antonio Borgese, la notizia giunse in redazione verso mezzanotte. Avevo appena concluso il lavoro redazionale ed ero sul punto di rincasare. Mi chiamò il direttore del giornale, Mario Missiroli. "Aspetta per favore, fammi l'artìcolo". Sudai freddo e mi misi alla màcchina da scrivere. Tre ore dopo uscivano due colonne in Terza pagina, mentre gli altri quotidiani si sarèbbero limitati ad una frettolosa notizia, o l'avrèbbero ignorata del tutto. In verità quello di Borgese fu un caso più ùnico che raro dato che in redazione conservavamo un arsenale costantemente aggiornato di "coccodrilli" e artìcoli biogràfici concernenti persone ragguardèvoli di cui si presumeva pròssima, a torto o a ragione, la dipartita. Tra quelle persone in procinto d'avviarsi ai Campi Elisi ero annoverato anch'io. Pochi mesi prima di andàrmene in pensione, trovai casualmente riposto in un cassetto il coccodrillo che mi riguardava. Lo lessi con voracità. Era stato commissionato ad uno scrupolosìssimo redattore altoatesino di cui mi sfugge il nome. Era un articolo fatto così bene che non osai cambiargli neppure una vìrgola".

Le piace ancora ascoltare mùsica? 

"Sì, alla radio e sui dischi. Alla Scala non vado più per non disturbare chi mi dovrebbe accompagnare considerando che la vista mi ha ormai abbandonato. Le òpere le seguo in televisione. Peccato che il nostro schermo sia così avaro di mùsica e pròdigo di calcio. Non capisco tanta passione nazionale per il pallone. Io non ho mai visto una partita neppure da ragazzo, quando la squadra della mia città, il Genoa, era in vetta alla classìfica. Oggi credo che sia in serie B, ma spero che finisca presto in C, eppoi in D, E... insieme a tutte le altre squadre di calcio. A propòsito, sovente faccio questo sogno: le porte del campo di calcio s'allargano fino agli àngoli dei corner, i portieri diventano piccolìssimi e i giocatori, come paralizzati, non rièscono più a muòvere le gambe e a mandare la palla nelle enormi reti. Sugli spalti dello stadio l'urlo della folla di colpo si tramuta in una gigantesca e silente meraviglia, fatta d'incredulità e terrore...".

 D'un tratto lo sguardo di Montale si fà cupo. Un àttimo. Il poeta, acquattato nella poltrona, sbuffa il fumo di una sigaretta e si mette a ridere con la propria intelligenza: "Signore, è contento dell'incontro?"

1 commento:

  1. caro enrico, mi dai un tuo recapito? me lo ha chiesto questo pomeriggio Umberto Padroni del quale certamente ti ricorderai. voleva chiamarti.
    acquafreddapietro@gmail.com oppure 348.76.48.579

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